di
Enzo Rega
[Unisco in un unico pezzo articoli usciti in "Obiettivo Saviano" e "Infiniti Mondi". Recupero il titolo usato in "Infiniti Mondi"]
Il 15 novembre 1922 nasceva a Napoli, nel
quartiere Montecalvario, il regista Francesco Rosi, al quale si devono pellicole
come La sfida, Salvatore Giuliano, Le mani
sulla città, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti fino all’ultimo, La tregua, da Primo Levi. Tutti film segnati
da passione civile e impegno politico. Nell’anno del centenario della nascita lo
ricordiamo con un libro dedicato a uno dei suoi film più significativi, Uomini contro, uscito nel 1970. Il libro
a cui ci riferiamo, ricco di immagini, è uscito nel 2021 in italiano e in
francese per le edizioni Gremese e si deve a Savino Carrella e a Pasquale
Gerardo Santella.
La struttura e le intenzioni del libro
Vidi per la prima volta Uomini contro di Francesco Rosi in occasione di un Cineforum presso il cinema Zara di Palma Campania, ora Teatro comunale. Era il 1976 ed ero studente liceale. Tra gli organizzatori un giovane Pasquale Gerardo Santella, tra i più ancor giovani spettatori l’amico Savino Carrella, anche lui studente. Sono loro gli autori di questo bel volume dedicato al capolavoro di Francesco Rosi, un libro ricco di foto pubblicato contemporaneamente in italiano e in francese nelle prestigiose edizioni Gremese, specializzate nella settima arte. Gli autori si sono divisi i compiti: Gerardo ha curato l’Introduzione, il Prologo, l’Epilogo e i Materiali; Savino Il racconto del film.
Santella, in un ampio lavoro di “sintesi”, si è preoccupato di calare Uomini contro nel contesto della Grande Guerra, del cinema storico e degli altri film dedicati a quegli eventi bellici fino a Torneranno i prati (2014) di Ermanno Olmi, nonché nel clima proprio degli anni in cui è stato realizzato: il film è del 1970, quindi a ridosso della contestazione del ’68.
Carrella ha compiuto un’analitica lettura
scena per scena della pellicola, con attenzione agli aspetti tecnici dello
specifico filmico, ma anche con un riscontro puntuale, volta per volta, con il
libro al quale è ispirato, Un anno sull’Altipiano
di Emilio Lussu, uscito dapprima nel 1938 in Francia, dove lo scrittore sardo era
esule, e poi in Italia nel 1945 (il libro è disponibile nell’edizione Einaudi),
riscontrandone sia le precise corrispondenze sia le evidenti differenze dovute
al discorso che il regista napoletano portava avanti: non solo il pacifismo, ma
anche l’antimilitarismo e la critica del potere.
In un post su Fb, Santella sintetizza così l’aspetto
e l’intento del libro scritto con Carrella: “Si tratta di una lettura
storico-sociologica del film di Rosi con un confronto analitico con il romanzo Un anno sull’Altipiano di Lussu. Ma è
soprattutto una condanna radicale degli orrori di tutte le guerre”.
Verso
il film: Santella racconta il suo “incontro” con Rosi e la guerra
Ma seguiamo più da vicino l’articolazione
del libro.
Come ho fatto io stesso – mimeticamente –
all’inizio di questo pezzo, Santella, aprendo il libro, parte dalla sua
esperienza personale, per arrivare al film, e passare dalla microstoria alla
macrostoria. Sappiamo così che il suo incontro con Rosi avviene proprio sul set
del suo primo film, La sfida (1958),
dedicato al camorrista Pascalone ’e Nola, che poi era di Palma Campania: nelle
campagne di Palma, paese degli autori di questo libro, furono girate alcune
scene, alle cui riprese assisté Gerardo ragazzino. Il suo incontro con gli
eventi della guerra era invece mediato dalla presenza del nonno Gerardo, reduce
“refrattario a qualsiasi manifestazione retorica che ricordasse la guerra, di
cui preferiva non parlare” (p. 13): un rifiuto che il nipote Gerardo poté
spiegarsi quando, con la visione di Uomini
contro, ebbe idea delle atrocità belliche. Infine, l’avvicinamento
all’ambientazione del film si completa con il racconto dei primi anni di
insegnamento di Gerardo, proprio sull’altopiano, alle pendici di Asiago, in
Veneto.
La
guerra vista dal basso e il cinema storico
In questo modo, veniamo dunque introdotti
nello specifico del film, ma anche del libro. Il riferimento alla guerra del
nonno è funzionale a comprendere un aspetto fondamentale: “la storia vista dal
basso”, dalla “gente comune”. I protagonisti non sono qui capi di stato e comandanti
militari, benché vi compaia lo spietato generale Leone (nei suoi panni perfettamente calato l’attore
francese Alain Cuny), ma “le degradanti condizioni della vita in trincea,
l’insubordinazione dei soldati agli insensati ordini dei comandanti, la
fraternità con i nemici; ‘antieroi’ quali i disertori, ed elementi che hanno
avuto notevoli effetti sul piano sociale, come la fame, il freddo, le malattie,
l’incontro e l’interazione al fronte di una babele di dialetti, abitudini e
costumi diversi” (p. 15).
Il cinema diventa dunque una “fonte storica”
che non dà solo informazioni sul passato, ma lo mette in scena, il che
corrisponde all’intenzione di Rosi di rendere lo spettatore attivo. Le immagini
di Rosi traducono – pur nella libertà interpretativa del regista, che a sua
volta crea la propria opera personale a partire da un testo già esistente – il
racconto di Lussu, il quale, nel suo diario di guerra, non ha voluto raccontare
“tutta” la prima guerra mondiale – da lui interamente combattuta per tre anni e
mezzo – ma darne un terribile assaggio concentrandosi su un segmento
particolare: il periodo nel quale la sua Brigata Sassari, dal maggio 1916 al
luglio 1917, è andata ripetutamente a infrangersi contro le inespugnabili
trincee austriache. Offrire un solo spaccato, osserva Santella, spinge il
lettore ad andare mentalmente a prima e a dopo prolungando nel tempo
l’orrore della guerra. Per dare l’idea dell’insensatezza della guerra, Rosi comincia
il film con uno scontro notturno tra due pattuglie italiane che si sono
scambiate reciprocamente come austriache, un caso di “fuoco amico”.
Lo specifico
filmico e il confronto con il libro
Carrella, aprendo la propria sezione,
sottolinea, a proposito di questo episodio notturno iniziale, la modalità
formale con la quale lo tratta il regista in vista di ciò che vuole
trasmettere: “Buio, così buio che, verghianamente non ci si vede neanche a
bestemmiare. Spente le luci della sala, inizia il film, ma lo schermo è
completamente nero. Il buio della sala si fonde con quello dello schermo. Lo
spettatore resta così al buio, condivide la situazione dei personaggi di cui si
cominciano a udire le voci: il regista ci vuole dire che sarà un’esperienza che
ci colpirà come uno schiaffo in pieno volto, che il nostro viaggio nella follia
della guerra non sarà accomodante” (p. 49). Possiamo aggiungere, con riferimento
alla teoria della comunicazione, che come il silenzio, anche il buio “parla”. E
il silenzio e il buio sono infranti dalle grida dei soldati e dai lampi di
colpi di fucile e bombe a mano. L’episodio, c’informa Savino, è identico a
quello del libro. Il buio non ci ha ancora lasciati, perché è su uno sfondo
nero che scorrono i titoli di testa, finché, da una nebbia spessa cominciano a
emergere figure di soldati. Non è presente invece nel libro l’episodio
successivo nel quale alcuni militari vengono legati ai reticolati, esposti al
fuoco nemico: entra in gioco il metodo-Rosi, cioè integrare il materiale
desunto dal libro di Lussu attingendo ad altre fonti; in questo caso la fonte è
il padre del regista che, in forza al Genio Militare, aveva scattato foto di
soldati sottoposti a quella terribile punizione. Tra le differenze rispetto al
libro ne va segnalata una, per così dire, strutturale: se nel diario di Lussu
fa spesso capolino l’ironia, pur nelle vicende tragiche, “Nel film di Rosi,
invece, non c’è l’ironia del libro; il regista, nella sua denuncia degli orrori
della Grande Guerra ma di tutte le guerre, rinuncia all’arma dell’ironia e va
avanti a colpi di accetta, mantenendola affilata attraverso la rabbia e
l’indignazione” (p. 66), osserva Carrella che sottolinea come la mancanza di
ironia sia cifra stilistica che caratterizza tutto il cinema del regista,
tranne qualche eccezione. Infine, nel film si sottolinea maggiormente l’aspetto
politico: si polarizzano nei due personaggi del sottotenente Sassu (impersonato
da Mark Frechette) e del sottotenente Ottolenghi (Gianmaria Volonté) il
liberalismo e il socialismo, e con le loro posizioni viene sintetizzato un
episodio più articolato nel libro. Ottolenghi dice che è contro i comandi sia
italiani sia austriaci che bisognerebbe sparare, e bisognerebbe sparare fino a
Roma, concludendo: “Il popolo va al governo. È il socialismo” (p. 76).
Il
“nemico interno” e la lotta di classe: un messaggio universale
È così che Carrella può spiegare il titolo Uomini contro: non “nemici contro”. I
soldati italiani e austriaci non sono altro che “uomini” costretti a uccidersi,
e non mancano nella guerra episodi nei quali i militari contrapposti nelle
trincee fraternizzano tra loro, come in tregue tacitamente stipulate in occasione
di festività, o nell’episodio nel quale gli austriaci chiedono ai soldati
italiani che stanno avanzando facendosi massacrare di smetterla, di ritirarsi: i
“nemici” si alzano sulle trincee smettendo di sparare.
Il nemico è invece all’interno dei rispettivi
fronti; sono i vertici militari e politici. Il titolo adombra quindi un altro
conflitto, la lotta di classe tra chi ha e chi non ha, tra chi comanda e chi
deve sottostare a ordini, e a un ordine sociale, ingiusti. È questo il
significato più generale che il film assume e la guerra diventa un tragico
pretesto per alludere alle ingiustizie che pervadono il mondo. Mentre rimane
una forte condanna della guerra, il film, oggi, come allora, ci parla anche
d’altro, ci parla della società in generale e della condizione umana. Ma ciò è
proprio dell’opera d’arte: contingente e universale al tempo stesso.
A
proposito dell’aspetto politico, qualche critico ha rilevato che Rosi in Uomini contro ha dato un’interpretazione
marxista della grande Guerra, e lo fa riprendendo dal filosofo ungherese György
Lukács i concetti di “totalità”, “realismo”, “tipico”. In quest’ottica si sottolinea
la dialettica tra il momento storico particolare e gli sviluppi successivi del
conflitto di classe. La trincea svolge la stessa funzione della fabbrica, e il
fante, come l’operaio, resta ignaro del disegno complessivo e del “prodotto”
d’insieme. Il sistema trascende il fante come l’operaio. Nel film, in
definitiva, si crea una dialettica tra alto e basso: da un lato il regista trae
dai documenti una visione d’insieme, dall’altro però riproduce il punto di
vista di chi combatte nelle trincee. Non solo: Rosi guarda al libro di Lussu
come prodotto “tipico” di quella determinata fase storica e delle relazioni di
classe che la caratterizzano. In definitiva, la chiave marxista “non si esplica
solo nel fatto che Rosi abbia applicato una lettura di classe al conflitto
narrato, ma nella presentazione della totalità economico-ideologica del
conflitto allora in atto” (Mimmo Cangiano, Raccontare
la totalità. Uomini contro di Francesco Rosi, 2017, cit. e discusso da
Santella a p. 118 e passim).
- Savino Carrella – Pasquale Gerardo
Santella, Uomini contro di Francesco
Rosi, ill., Gremese 2021, p. 144
- Savino Carrella – Pasquale Gerardo
Santella, Les Hommes contre de Francesco
Rosi, ill., Gremese International 2021, pp. 140