Mi sembra che il modo giusto di ricordare Costanzo Ioni sia attraverso la sua poesia. Ripubblico qui, allora la mia recensione del suo libro Stive e una Nota che introduceva alcune sue poesie. Entrambe sono uscite alcuni anni fa nella rivista napoletana "Levania", nella cui redazione ero insieme a tanti amici di Costanzo.
Costanzo Ioni, Stive,
prefazione di Antonio Pietropaoli, Guida, Napoli 2017, 111 pagg.
Il libro è un evento nella biografia dell’autore (Ioni è alla sua seconda raccolta benché qui raccolga parte dei testi scritti in un lunghissimo arco di tempo) ma anche nella poesia odierna con la riproposizione di una scrittura decisamente sperimentale, passata attraverso l’esperienza del Gruppo 93. L’estremismo espressivo di Ioni è correlato al radicalismo politico nel quale il «linguaggio è ideologia» (Pietropaoli). Alla poesia di Ioni si può applicare ciò che Romano Luperini scrive nell’antologia Poesia italiana della contraddizione (a cura di Cavallo e Lunetta, Newton Compton 1989): certa sperimentazione sembra collocarsi alla confluenza degli esiti della rivista “Officina”, rivolta all’impegno civile, e del Gruppo 63, votato soprattutto a una feroce dissoluzione del linguaggio. Tutto questo in Ioni con una personalissima declinazione: impegno politico e de(ri)costruzione linguistica, pastiche, italiano arcaico, dialetto antimelodico, assemblaggio, idioletto ecc. Ecco allora, in queste pagine – tra versi e prosa – autostrade e televisione, emblemi della società neocapitalistica (due “mezzi di comunicazione” nel senso sia di “trasporto” che di “informazione”), e aspetti dell’homo consumens baumaniano-pasoliniano con un tanto di Augé: «Dove finisce la città ti chiedi se nel gomitolo d’asfalto affoghi qui dove si consumano gli assedi ai saldi stagione dei non-luoghi la fila barcollante di ferraglia è l’unico paesaggio che ti abbaglia» (p. 37). Leggiamo allora L’antica allegria del guidatore, «dove si narra di come sia complesso tentare di uscire dall’autostrada nelle ore di punta cché la fila interminabile di auto è pressocché completamente avvinta non lasciando spazio neppure per un cambio di corsia e comunque si procede alternativamente fra i 20 e i 3 Km/h non potendo scavalcare con un balzo questa massa di lamiere motori fumiganti crani urlanti vari litiganti» (p. 21; sembra l’interminabile piano-sequenza in Week End di Godard). E in Limite di velocità ecco la (in)civiltà dei rifiuti in Campania, e non solo: «Lì mite onnivoro, et tu volessi arrivà a la città splendente, che de là pare ossimoro suadente, ma lì, limite estremo, ne la ferraglia stromba a zante et, porque non, a miante, que nce ne stanno tantissimi di bidonissimi en le campagne annascuse et e verdi et e fresche et e scomparite sotte lo cemento e sotte lo veleno» (p. 39). Un “errare” – nel senso di vagare e di sbagliare: e con la riflessione sul limite Ioni si muove tra piano socio-poetico e filosofico. Il libro si chiude con il testo eponimo nel quale, pluriliguisticamente e polisemanticamente, il titolo sta per la stiva, nella quale sono ammassati i migranti al cui dramma il poemetto è dedicato, sta per la parola napoletana che significa stavi, e sta per la pronuncia italiana del nome Steve, che è il migrante. Un libro-mondo, che ricorre all’intero mondo del linguaggio, a una lingua “arravugliata” (“lengua ngorantissima stregnuta e sbattutissima […] lengua d’interiora”; pp. 72-73) che si presta teatralmente all’oralità. Un libro che ci scavalca à rebours collegandosi a precedenti stagioni, al comtempo proiettandosi oltre con una scrittura colta (e insieme nelle cose), complessa e intelligente ma nello stesso godibilissima: Respirano qui Gadda e Joyce, Dante e Sanguineti, Folengo e Ruzante in una scrittura che va per conto proprio, eppure è sorvegliatissima. Come direbbe Alfonso Gatto: "La vera forza della poesia è ch'essa sfugge al poeta. Ma il poeta ha riflessi pronti nel guidarla, lasciandola fare”.
Ioni, Tra scarti di senso ed errori prossemici
Comincia con un gioco degli occhi il testo di Costanzo Ioni, per citare un altro libro di quell’Elias Canetti al quale ci riporta, oltre che all’Inquisizione, il titolo Autodafe. Ma il titolo originale dell’unico romanzo canettiano era Die Blendung, che significa “accecamento”, padre dell’errore; e il disfacimento della ragione è il protagonista, attraverso il sinologo Kien, del libro di Canetti. Ma forse qui non c’entra (errore è stato citarlo, ingannati da assonanza senza consonanza). Comincia con un atto mancato, il testo di Costanzo Ioni. Come quelli che attraversano e deragliano le pagine di un giovanile romanzo sperimentale di un altro mitteleuropeo, Peter Handke: una mano che si protende per accogliere un’altra mano che, erroneamente, si è creduta tesa verso di noi, e quindi, nel falso movimento (ma non è questo il libro di Handke a cui ci riferiamo) la si ritira in buon ordine. Errori della prossemica. Un inciampo, e un abbandono, della mano che dunque, scoperto l’errore, lo scarto di senso, si ritrae appunto a sua volta (ma, forse, errore reiterato è quest’altro riferimento). Sulla lastra del pensiero si può scivolare, e tornare indietro, e ritornare di nuovo avanti: se l’autodafé è il riconoscimento della propria eresia, e la sua abiura (abiura che non salva), il relapso è invece colui che compie, con un avvitamento su se stesso, un’abiura dell’abiura, tornando al punto di partenza. L’abiura, che dovrebbe essere la correzione dell’errore, si rivela, in un gioco di specchi, insieme concavi e convessi, errore essa stessa. Ma l’indiretto protagonista del testo ioniano (inoneschiano), il “tu”, appare pur privo di dottrina e lontano pertanto da qualunque eresia: chi è il “relapso” allora? Si aspetta dunque un intervento che redima – ma da parte di chi? – che corregga ciò che non va nei tessuti (nel testo?). Solo un rallentamento nella percezione può farci cogliere la sbavatura e ricomporre la traiettoria, la curvatura dell’arco.
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