giovedì 11 ottobre 2018

Carlo Cipparrone, Mirror of Glances (Specchio degli sguardi)

di
ENZO REGA





Dopo l’edizione bilingue polacco-italiano per la casa editrice Heliodor di Varsavia di Czas, ktòry nadejdzie (Il tempo successivo) del 2006, a cura di Pawel Krupka, ecco un nuovo libro bilingue – questa volta la traduzione delle poesie è in inglese – del calabrese Carlo Cipparrone, che ora dispiega una scelta antologica dalle raccolte Le oscure radici (1963), L’ignoranza e altri versi (1985), Strategie nell’assedio (1999). Tre soli, aurei, libri in più di trent’anni, in una parabola dove, pur nell’evoluzione, il verso misurato, asciutto, narrativo e con poche concessioni alla lirica, rimane sostanzialmente fedele a se stesso e al rigore etico e estetico dell’autore. Rigore che si accompagna a un’esigenza di nitore, di “purezza”, per quanto irraggiungibile, come già ci dice il breve componimento posto quasi in apertura: “Basta l’aria a sciupare / la bianca magnolia: la purezza è un sogno. / Ma non resta che fingersi allegri / aspettare che il sasso vada in fondo / e l’acqua torni chiara” (p. 12). Il che sembra caratterizzare la stessa levigatezza della poesia di Cipparrone: il suo aspetto terso, in superficie, viene dopo il sasso lanciato in profondità, e la superficie è come uno specchio capovolto della profondità raggiunta, quando però le acque si sono calmate. Per dirla, più o meno, con Walter Benjamin, non è necessario parlare in modo addolorato del dolore. Anzi, una sua geometrizzazione espressiva, quasi come un raffreddamento del calore della vita, diventa cifra stilistica più efficace. Ma in fondo c’è anche come una sorta di pudore nel dispiegare pienamente il canto: “Se apro bocca per un canto, / un grido, un respiro / più affannoso del solito; / se apro bocca per il vizio / improvvido e sciocco ch’è il parlare, / dire il male e il bene che sento, / c’è un sorvegliante / a riempirmi la bocca / con una manciata di terra, / frettoloso becchino delle mie parole” (p. 60).  Allora, rimane solo il tempo, e la possibilità, di raccontare piccole storie, come quella del cane Dick, il cui andamento prosastico potrebbe anche ricordare certa poesia narrativa americana, o del passero eroe (per continuare con questo catalogo del mondo animale) che ha scoperto il trucco dello spaventapasseri, o poi del più felice, ormai morto (“Morto sei: il tuo coltello / non scanna più maiali; / il tuo fucile appeso ricorda / la fuga del cinghiale e della volpe”; p. 20), o ancora di Corinna, ragazza friulana che ai giardini conduce il figlio d’altri. C’è poi la storia, in più stanze,  di Corrado Foschi, pellicciaio, e salutista, il quale non può lamentarsi di come gli vanno gli affari, nonostante l’iva al 38%, e che plagia modelli firmati senza sensi di colpa perché tanto la qualità è la stessa, come lui rassicura le clienti: ma la spia del fatto che qualcosa non quadri è nascosta nei versi, già nell’enjambement particolarmente inusuale che divide nome e cognome del personaggio (l’uomo che “fa jogging lungo l’anulare / del parco Robinson è Corrado / Foschi, pellicciaio di via Crati”; p. 70), oltre che nel significato stesso del cognome che ne fa, se vogliamo, un tipo fosco e perché no? losco; e poi in quel sostantivo che sa tanto di aggettivo, quando dice il poeta che il suo Foschi “passerà il resto della giornata / diviso tra vano sartoria, / sala di lavorazione e caveau” (ivi), dove il “vano”, da noi messo in corsivo, ci richiama tanto la vanitas vanitatum del Qoelet biblico. Vano è il suo lavoro che soddisfa la vanità delle sue clienti, come vano appare il mondo nel quale viviamo.
  Ma la vicenda ci è presentata, come le altre ancor più piccole vicende cui abbiamo fatto riferimento, nella sua immediatezza, che è poi il modo in cui sono vissute: “Non c’è tempo per riflettere / né spazio per guardare, / stringe il presente / e tutto sospinge, comprime, / schiaccia contro il muro” (p. 56). E questa è per l’appunto la condizione dell’Assedio, cui rimanda il titolo di questo testo nonché quello della raccolta di cui esso fa parte. Dell’assedio si prende coscienza quando si abbandona l’abbandono: “Dura l’assedio da quando / a me accadde d’essere assediato / e l’inizio fu prendere coscienza / di questo stato, il giorno in cui / abbandonai la sponda del fiume, / l’oziosa abitudine / di guardare l’acqua scorrere” (ivi). Ora, travolti dalla corrente, bisogna a fatica tentare di riemergere, restare a galla, toccare l’argine “appena”. Ma l’anima, che “è un sasso” – che ci ricorda il sasso da cui eravamo partiti, nonché la “pietra” che compare in una delle poche poesie liriche qui presenti (“Peso leggero è questa che porto / pietra da quando nacqui, / come la notte che solleva la luna / sulle spalle curve del cielo / e se ne illumina”; p. 14) – “un sasso viscido / ricoperto di muschio, / seppellito sul fondo” (p. 56).  Come per l’inizio, dove il gioco di trasparenza e superficie da un lato e di profondità dall’altro c’era dato dal contrasto acqua/sasso (acqua e terra, come elementi primordiali degli antichi), qui lo stesso intreccio di verticalità e profondità ci è dato dall’identificazione tra sasso e anima (qui ora, di quegli elementi primordiali, terra e aria): strana identificazione, se poi solitamente immaginiamo l’anima involarsi in più alte sfere, come pure accade di dire a Cipparrone più oltre: “E l’anima sempre / pronta al viaggio, leggera, / già libera del corpo” (p. 66). Che è poi la “strategia nell’assedio”, l’unico modo per liberarsene, se poi si afferma “l’universo è in me stesso: / chiuso, catturato, infelice” (p. 65) comunque, non sapendo se a noi e alla nostra anima anonima sarà dato d’esistere nel cosmo. Che sembra l’esito di questa poesia, poesia prosciugata come uno di quei sassi o pietre evocate, uno di quei ciottoli montaliani. E, come per Montale, non superiamo quel muro irto di cocci che ci assedia, quella rete che ci recinge, ma pure, nel recinto – “assediati dall’assediante realtà” (p. 68), “Sopportando giorni / di vita provvisoria: caserme, rancio sciapido, affollate camerate, squallidi ambienti; […]” (p. 66), – mettiamo in atto le nostre strategie di sopravvivenza, o di esistenza, disegnando una nostra topografia in cui alle strade assegnare nomi di poeti e scrittori: “via Alvaro, via Ungaretti, via Répaci, sino a via Quasimodo” (p. 76; coordinate letterarie di Cipparrone?), ben due dei quali calabresi come l’autore, che conclude qui (provvisoriamente) proprio tornando alla sua terra, a una Calabria come metafora, terra stupenda e devastata, dove trovare però anche “Nascosto tra i boschi sulla collina / il rifugio dei poeti” (p. 86). Per constatare infine, sempre nelle stanze di quest’ultimo testo, che “Il passato è ricordo d’un viaggio / per scoscesi declivi” (p. 88) Ma: “Il passato è indicibile” (ivi). Anche quei poeti (sono loro i “transfughi”?) rifugiati sulle colline non possono che misurare la propria e nostra distanza: “la loro progressiva lontananza nel tempo sarà la nostra futura / lontananza dal mondo” (p. 90).  


CARLO CIPPARRONE, Mirror of Glances (Specchio degli sguardi). Poems 1963-1999, translated by Martha Bache-Wüg, Gradiva Publications, New York, 2009, pp. 92, Euro 20,00

Pubblicato originariamente in "Gradiva" (State University of New York at Stony Brook), Issue #37-38 (Spring 2010-Fall 2010), pp. 231-233.

In ricordo di Carlo Cipparrone (1934-2018)