giovedì 28 giugno 2018

Antonio Gramsci tra critica teatrale e critica letteraria

di
ENZO REGA


 

   Passione mondiale s’intitola l’intervento di Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society Italia, che apre lo speciale Global Gramsci che “Robinson” di “Repubblica” (domenica 19 febbraio 2017) ha dedicato ad Antonio Gramsci (1891-1937), “il più citato e forse il più tradotto tra i pensatori italiani”, come scrive appunto Liguori, che parla di “ubiquità del leader sardo nelle università internazionali, nelle scienze politiche e nell’antropologia, nella linguistica e nello studio dei mass media, nella storia e nella pedagogia”; e l’interesse per il suo pensiero va dal Pacifico all’Atlantico, dalle accademie di Rio de Janeiro al King’ College londinese. Un Gramsci global sia geograficamente che per i campi disciplinari attraversati: e non è di secondo piano l’interesse per la letteratura, a cominciare dal giovanile avvicinamento al teatro. Un Gramsci minore, ma non marginale: il critico teatrale, così Fabio Francione intitola l’introduzione a un’antologia di scritti teatrali pubblicati nell’edizione torinese e poi piemontese dell’Avanti!: Antonio Gramsci, Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni 1915-1920 (pp. 235, € 18, Mimesis, Milano-Udine 2017). Francione ricorda il giudizio di Eugenio Garin per il quale la critica teatrale è un terreno privilegiato perché il dramma permette di tradurre “plasticamente” le contraddizioni sociali più profonde. Torino, dove Gramsci viveva, era con Milano e Roma una delle capitali del teatro, oltre che del nascente cinema italiano, altra forma d’industria accanto alla Fiat. Nel confronto gramsciano teatro-cinema è quest’ultimo a scapitarne, come in fondo accade in Quaderni di Serafino Gubbio operatore di quel Luigi Pirandello che ha un posto di rilievo per il pensatore sardo, in un giudizio altalenante – dalle recensioni teatrali giovanili ai Quaderni del carcere – che non toglie a Gramsci di aver compreso ancora prima di Adriano Tilgher la grandezza del drammaturgo siciliano. E Gramsci ha potuto vedere solo i drammi da Pensaci Giacomino! del 1916 a Come prima, meglio di prima del 1920, passando attraverso Liolà e Il piacere dell’onestà, a proposito del quale formula un giudizio nel quale coglie meriti e ‘demeriti’: “Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sedimenti di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché alla moda” (29 novembre 1917).
   Le riserve gramsciane sono messe in evidenza anche da Yuri Brunello nella sua introduzione a Antonio Gramsci, La smorfia più che il sorriso. Scritti su Pirandello (pp. 136, € 16,50, Castelvecchi, Roma 2017), volume che raccoglie le recensioni teatrali e le note nei Quaderni dedicate a Pirandello, ma anche ad autori o tematiche “limitrofe”: Martoglio, Capuana, teatro e cinematografo ecc. Anche questo secondo titolo riprende una considerazione gramsciana. Recensendo Pensaci, Giacomino! (24 marzo 1917), Gramsci scrive: “I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell’arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia più che il sorriso, il ridicolo più che il comico: che osserva la vita con l’occhio fisico del letterato, più che con l’occhio simpatico dell’uomo artista e la deforma per un’abitudine ironica che è l’abitudine professionale più che visione sincera e spontanea”. Gramsci risentirebbe dunque ancora dell’idealismo crociano che distingue tra “poesia e non poesia”, tra prodotto della conoscenza e opera esteticamente valida: sarebbe invece poesia riuscita Liolà, dramma scritto in siciliano, testo immune da acrobazie intellettualistiche. Il 4 aprile 1917 così lo recensisce: “il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà; l’intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente rinnovato:  esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante che lo aduggiava”. Ed è l’uso del dialetto a far considerare Liolà, anche nei Quaderni, il risultato più alto della drammaturgia pirandelliana. Nella recensione del 1917 Gramsci riallaccia l’arte dialettale alla tradizione popolare della Magna Grecia, ai fliàci, agli idilli pastorali, al “furore dionisiaco” della vita dei campi ancora presente nella “tradizione paesana della Sicilia odierna”. La svolta che Gramsci compie nei Quaderni a partire dall’analisi del Canto X dell’Inferno di Dante evidenzia il suo allontanamento da Croce. E nei Quaderni giunge ad analizzare in termini nuovi il dialetto di Liolà. Nella Nota 15 del Quaderno 14 scrive: “Ora pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare ‘storicamente’ popolari e popolareschi, dialettali, che non si tratti cioè di ‘intellettuali’ travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani che pensano e operano così proprio perché sono popolani e siciliani”. Il dialetto e il “folcloristico” non si riagganciano più al mondo mitico-irrazionale, ma esprimono una dimensione storico-sociale.
   L’intellettuale ‘siciliano’ Pirandello realizza dunque un’opera nazionale-popolare: la letteratura è elemento dell’egemonia culturale, nella quale l’intellettuale è “organico” a un ceto al quale dà voce. È quanto sia a proposito di Liolà che della concezione gramsciana della letteratura evidenzia Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (pp. 192, € 18, Quodlibet, Macerata 2016): un libro che –  analizzate le posizioni gramsciane, incentrate su una critica letteraria che, senza rinunciare alla propria specificità di analisi estetica, sappia anche essere una generale critica della cultura in funzione dell’emancipazione delle masse popolari – verifica la dissoluzione di tale del paradigma gramsciano tra anni Sessanta e Settanta, quando o non si riesce a superare l’ipoteca idealistico-crociana oppure si rinuncia al senso politico dell’arte e della letteratura anche da parte marxista. Gatto sottolinea il superamento gramsciano della dialettica dei distinti di stampo crociano e fa riferimento alla nota dei Quaderni intitolata Nesso di argomenti, ricordando come il pensatore sardo rimarchi l’eccessiva cultura libresca ed elitaristica di buona parte degli intellettuali italiani, poco inclini a collegarsi a una dimensione concreta e a comprendere la vita popolare: scrittori quasi affiliati a “una casta o un sacerdozio” (Quaderno 12). Di cosa bisognerebbe tenere conto? Ecco: “unità della lingua, rapporto tra arte e vita, questione del romanzo e del romanzo popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale cioè di una rivoluzione popolare […]” (Quaderno 21). Gramsci se la prende con il “neolalismo” patologico di poeti come Ungaretti, legati a “un linguaggio personalmente arbitrario” (Quaderno 23), e con il paternalismo di un Manzoni verso gli umili. La conseguenza del distacco tra scrittori e popolo è che la stessa letteratura italiana non è popolare in Italia. In Gramsci, dialetticamente, le contraddizioni “tra una critica letteraria ferma al giudizio meramente estetico e una critica politica che esalti il solo momento storico-materiale dell’opera sono superate (e conservate) in una critica della cultura dinamica e militante, in cui non esistono autonomie ma solo specificità” (Gatto).
   Decisivo in questo è il “ritorno a De Sanctis”, come rileva anche Matteo Veronesi, Il velo di Niobe. Gramsci critico e la catarsi dell’arte, in Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo (a cura di Neil Novello, pp. 175, euro 20, Campanotto, Pasian di Prato, Udine 2017): “Il ‘ritorno a De Sanctis’ caldeggiato da Gramsci in pagine celebri prospettava, appunto, una critica capace di fondere i due aspetti, quello estetico e quello ideologico, il cimento dell’ermeneutica e quello della militanza. […] Riviveva […] quell’idea della letteratura come criticism of life che era stata di Mattew Arnold, e poi di Wilde”. Sempre nel volume Envoi Gramsci, Roberto Salzano (Intorno alle cronache teatrali di Gramsci) evidenzia come il pensatore sardo sia attento al “principio della formalizzazione dei contenuti, che rimane essenziale nell’opera d’arte. Si direbbe che non tanto la conciliazione di contenuto e forma può spiegare la peculiare disponibilità euristico-interpretativa del posizionarsi gramsciano in un’attività di giudizio critico, quanto un’attenzione alle forme del contenuto”, per dirla con Hjelmslev. Salzano richiama l’attenzione anche sull’analisi gramsciana della “vitalità dell’azione umana” che sulla scena si riverbera nel corpo stesso degli attori.
   La centralità gramsciana delle riflessioni sulla letteratura si salda come detto alla questione dell’egemonia, e questa a sua volta a una problematica pedagogica. Riassume Gatto: “Il fine è l’educazione delle masse al riconoscimento morale ed estetico della bellezza. E si tratta di una pedagogia trasparente, lontana dagli inganni dell’egemonia borghese […] il marxismo, per Gramsci è ‘l’espressione di […] classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutta la verità’ (Q 10, 41, 1320)”. Questa autoeducazione popolare non ha nulla del dirigismo sovietico-zdanovista. L’arte non si modifica dall’esterno, ma attraverso un processo di rinnovamento che riguarda la società stessa. L’arte e la letteratura sorgono in modo dinamico dalla cultura e dalla totalità sociale in forme creative soggettive e persino imprevedibili. Sulla scia del fondatore del materialismo storico – è di nuovo Veronesi a sottolinearlo – Gramsci, nonostante la prospettiva storicistica, sottolinea l’eternità dell’arte: “L’eternità della poesia, dice Gramsci (e si ricordi che lo stesso Marx, nell’introduzione ai Grundrisse, doveva pur riconoscere, rileggendo Omero in termini quasi vichiani, che un ‘perpetuo incanto’ continuava a irradiarsi da quegli antichi miti, che essi continuavano a rappresentare un modello, un termine di paragone e una fonte di piacere estetico perenni […]), consiste precisamente nella sua facoltà di ‘suggestione’, che le consente di andare al di là del dato immediato, di trascendere la mera contingenza”. Ciò pone in rapporto più dinamico due altri fondamentali concetti marxiani, quelli di struttura e sovrastruttura: per Gramsci la coscienza degli uomini elabora la struttura in superstruttura in un processo che coinvolge l’autocoscienza dell’individuo come parte, e insieme specchio, della collettività stessa. Ribadire oggi, con Gramsci, l’importanza sociale della letteratura, della cultura, non è cosa di poco conto.



©ENZO.REGA.IBALZIROSSI.IT

©L'INDICE DEI LIBRI DEL MESE


Pubblicato in "L'indice dei libri del mese", n. 5, Maggio 2018  


I libri

Antonio Gramsci, Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni 1915-1920, a cura di Fabio Francione, pp. 235, euro 18, Mimesis, Milano-Udine 2017

Antonio Gramsci, La smorfia più che il sorriso. Scritti su Pirandello, a cura di Yuri Brunello, pp. 136, € 16,50, Castelvecchi, Roma 2017

Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (pp. 192, € 18, Quodlibet, Macerata 2016

Neil Novello, a cura, Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo, pp. 175, euro 20, Campanotto, Pasian di Prato, Udine 2017




lunedì 25 giugno 2018

Ancora Marx per la riumanizzazione dell’uomo. Il filosofo tedesco attuale anche ai tempi del neocapitalismo finanziario

di
ENZO REGA





L’anno scorso cinquantenario della morte di Antonio Gramsci, avvenuta il 27 aprile del 1937 per le conseguenze della detenzione fascista. Quest’anno bicentenario della nascita di Karl Marx: 5 maggio 1818, Treviri, Germania. Cosa rimane del pensiero dei due comunisti? Gramsci è uno dei filosofi politici più studiati al mondo. Marx era dato per spacciato già negli anni Settanta, paradossalmente proprio nelle ultime stagioni più politicizzate: intorno al 1978, nel suo corso universitario di Storia delle dottrine economiche, lo storico napoletano Pasquale Villani ci ricordava come Marx venisse accusato di essere datato perché aveva analizzato il capitalismo ottocentesco. Ebbene, nel suo libro del 2008, La nuova Londra: capitale del XXI secolo (Garzanti), Marco Niada, ai tempi collaboratore de “Il Sole 24 Ore”, analizzando la situazione della capitale inglese, in quegli anni piazza economico-finanziaria anche più importante di New York - e in relazione all’espansione del neocapitalismo –, si chiedeva: allora Marx aveva torto? E rispondeva di no: quell'espansione portava, marxianamente, le contraddizioni al proprio interno. Contraddizioni esplose nella crisi internazionale dello stesso 2008.
I conti con Marx sono allora tutt'altro che chiusi. Già nel 2009 il giovane e discusso filosofo italiano Diego Fusaro – studioso anche di Gramsci – pubblicava Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani). Fusaro “legge” in termini marxiani anche gli odierni flussi migratori: il capitalismo ha, oggi come ieri, bisogno di un surplus di manodopera – quella che Marx chiamava “sovrappopolazione relativa” o “esercito industriale di riserva” – per tenete bassi i salari. È l'altro volto della delocalizzazione: l'apertura di fabbriche in paesi dove la manodopera costa meno. È sempre vero allora che il plusvalore (il profitto) è pluslavoro, lavoro in più non retribuito. Dunque, bisogna tenere bassi i salari; il che innesca un’altra tipica contraddizione marxiana: produrre sempre di più –  perché per essenza il capitalismo è produzione non di beni ma di merci – per una massa di persone che non ha più la capacità di acquistare. Da qui crisi cicliche di sovrapproduzione, le cui “date” Marx aveva allora previsto. Come intuiva la vocazione alla mondializzazione – oggi diremmo globalizzazione –  del capitalismo.
Marx avrebbe fallito però proprio la sua profezia principale: il crollo definitivo del capitalismo. Il comunismo si è affermato - in forme che forse c’entrano poco con Marx - nei paesi arretrati e non in quelli economicamente avanzati. A parte il fatto che Marx aveva pure previsto che la rivoluzione sarebbe scoppiata proprio in Russia, la tenuta è dovuta alle contromisure prese dal capitalismo che ha “imparato” le proprie debolezze proprio dalle analisi marxiste. Villani, in quel lontano corso universitario, ci sorprese ancora dicendo che c'era chi accusava Marx di essere stato utile alla borghesia, perché con Il capitale del 1867 aveva spiegato ai capitalisti come funzionava, o non funzionava, il capitalismo.
Infine, Marx avrebbe semplificato la società dividendola in due classi sociali, borghesia e proletariato. Ebbene, a quella polarizzazione sembra si stia tornando dalla crisi del 2008 con la riproletarizzazione di ampi strati del ceto medio. E sempre più i lavoratori per le grandi multinazionali sono pezzi accanto ad altri pezzi. La richiesta di giustizia sociale rimane urgente per la riumanizzazione dell’uomo. Il Marx giovane e “umanista” dei Manoscritti del 1844 ci parla anche ai tempi del capitalismo finanziario.

©ENZO.REGA.IBALZIROSSI.IT

Pubblicato in "Il Pappagallo. Quindicinale di informazione politica e culturale dell'area vesuviana" (Palma Campania), Anno XXII, Maggio 2018, Numero 399