ENZO REGA
“Sangue
di Cristo, / demonio, attaccami a questo / tanto lo devi legare / che di me non
si deve scordare”. Così, a Colobraro, in provincia di Matera, si recita durante
la fascinazione erotica per conquistarsi un amante, reggendo, al momento
dell’elevazione durante la messa, un sacchetto con una polverina che contiene
tre gocce di sangue del mignolo destro e un ciuffo di peli di ascelle e pube. A
Viggiano, nel potentino, per vendicarsi si pronuncia questo malocchio: “Io ti
amo e ti rispetto / come al sangue mio. Tu sei traditore / io ti attaccherò. Io
ti attacco nel sangue”: in lucano, “io ti attacche a o’ sanghe”.
Attaccare
nel sangue, poi, significa aggredire le radici della persona stessa.
Fascinazione e malocchio non possono mancare neanche a proposito di matrimonio
e consumazione. Spesso invece, al contrario, bisogna “sfascinare” la vittima da
un precedente malocchio. Sempre a Viggiano, allora: “Chi t’ave affascinate? /
L’uocchie, la mente e la mala volontà / chi t’adda sfascinà? Lu Padre, lu
Figliolo e lo Spirito Santo”. E allora si ricorre al cosiddetto “maciaro”,
l’esperto di cose magiche – e ce n’erano di famosi nella Lucania degli anni
Cinquanta indagata dall’etnologo napoletano Ernesto de Martino. Se in altri
casi l’interesse cadeva su fenomeni popolar-religiosi come il “tarantolismo” pugliese,
in questo caso, in Sud e magia (ripubblicazione presso
l’editore originario Feltrinelli in “Campi del sapere” e nella “Universale
economica”, rispettivamente 2000 e 2001, è da quest’ultima che cito; poi
Feltrinelli 2013 e Donzelli 2015) l’oggetto d’analisi è la “fascinazione”, in
dialetto “fascinatura” o “affascino”.
Cos’è?
“Con questo termine – spiega in apertura l’autore – si indica una condizione
psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di
dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta
[…]. Col termine ‘affascino’ si designa anche la forza ostile che circola
nell’aria” (p. 15 dell’ “Universale”). Si tratta dunque di un “legamento”,
talvolta detto anche “attaccatura”, “attaccatura di sangue” (in alcuni casi,
certi soggetti si legavano davvero, con funi, inspiegabilmente, durante la
notte; de Martino ipotizza che tali legamenti avvenissero a opera dei familiari
in condizioni di trance). Quando c’è un agente umano colpevole intenzionalmente
della fascinazione, si parla allora di “malocchio” o di fattura”.
Ci
troviamo dunque a rileggere di nuovo queste pagine di de Martino, per un po’
escluso dalla rete di riferimenti della culturale ufficiale. Ma pronunciarsi
sulla definitiva uscita di scena di autori e problematiche – dando per conclusa
una certa stagione intellettuale – è sempre estremamente pericoloso e si corre
il rischio di essere puntualmente smentiti dall’evolversi di cose e idee. È il
caso appunto di de Martino (Napoli 1908 – Roma 1965), il cui “mondo popolare
subalterno” fa di nuovo – per dirla con lui – “irruzione nella storia”, almeno
nella storia editoriale e culturale dei nostri tempi contraddittori. La doppia
ripubblicazione di Sud e magia del 2000-2001, accanto alla
riedizione dell’altrettanto celebre La terra del rimorso (Net,
2002) sui tarantolati e dell’incompiuto La fine del mondo (Einaudi,
2002) sulle apocalissi, ci riporta agli Cinquanta e Settanta, quando le
tematiche di de Martino segnavano la vita culturale (con in più che ora si
sottolinea, accanto all’importanza dell’etnologo, lo spessore del filosofo).
Ne era
allora testimonianza un volumetto curato da Pietro Angelini, Dibattito
sulla cultura delle classi subalterne. 1949-50 (Savelli, 1977), che,
nel rinnovato interesse degli anni Settanta (e nel suo clima iperpolitico nel
quale parlare di “culturale popolare” significava ridare dignità a un mondo di
sfruttati), raccoglieva il dibattito suscitato dall’apparizione nel settembre
1949, nella prestigiosa rivista “Società”, del saggio demartiniano “Intorno a
una storia del mondo popolare subalterno”: fra l’altro il libro pubblicava
considerazioni di quel Cesare Pavese con il quale de Martino avrebbe diretto
nei primi anni del secondo dopoguerra la famosa “collana viola” dedicata da
Einaudi all’etnologia, prima che essa fosse rilevata da Boringhieri (il
carteggio relativo fra de Martino e Pavese è stato raccolto, sempre da
Angelici, in Cesare Pavese - Ernesto de Martino, La collana viola.
Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri 1991; esso testimonia di un rapporto
non sempre facile fra l’etnologo, impegnato politicamente fra Psi e Pci, e lo
scrittore, meno legato a una visione ideologica benché pur esso schierato a
sinistra). La collana curata a quattro mani dal piemontese e dal napoletano
prende l’avvio con un testo di de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni
a una storia del magismo” (ora Bollati Boringhieri 2000), apparso nel 1948,
a inaugurare quella serie di studi condotti anche sul campo che avrebbe visto,
nel 1959, l’uscita (non più per Einaudi) per l’appunto del nostro Sud e
magia.
Libro che
si presenta diviso in due parti, la prima dedicata alla “Magia lucana”, nella
quale più facilmente era possibile reperire tracce degli antichi rituali
stregoneschi pagani e medioevali; la seconda, invece, a “Magia, cattolicesimo e
alta cultura”, nella quale si esamina anche il fenomeno particolarmente
napoletano – ma, diremmo, non solo – della jettatura: un rapporto fecondo,
dunque, quello che de Martino viene qui a stabilire fra bassa e alta cultura.
Certi fenomeni popolari accadono perché si inseriscono in certe coordinate
culturali generali: il cattolicesimo rispetto al protestantesimo è senza dubbio
terreno di coltura più fertile per la conservazione e l’esercizio del magico.
Umberto Galimberti nell’introduzione sottolinea la specificità dello studio
demartiniano rispetto a quelli analoghi di Lucien Lévy-Bruhl, di
Marcel Mauss e di Carl Gustav Jung: essi si limitano, pur in migliaia di pagine,
a descrivere pratiche magiche, confrontate con rituali rintracciati in
territori diversi, senza l’individuazione e la delineazione dei vari contesti
storico-geografici, sola operazione che avrebbe permesso di comprendere,
interpretare e spiegare davvero l’essenza della magia e la sua funzione nelle
diverse costellazioni socio-culturali. De Martino, a differenza ad esempio
dello strutturalismo di un Claude Lévi-Strauss, che si propone di individuare
proprio le strutture portanti, costanti e rintracciabili in ogni cultura al di
là degli elementi contingenti (rispetto a questi isolandole e archiviandole in
un repertorio dei possibili e ricorrenti atteggiamenti umani sotto ogni
latitudine) – de Martino, dicevamo, sulla scorta del suo storicismo di matrice
hegelo-marxista-crociana, ricolloca ogni pratica nel suo contesto storico.
Scrive Galimberti: “Una pratica magica è leggibile solo se è storicizzata,
se è inserita in quella civiltà, in quell’epoca e
in quell’ambiente storico dove la comunità condivide quella mitologia
o quellareligione” (p. XI).
Nell’Epilogo
è de Martino stesso a tracciare un’efficace sintesi del suo lavoro. Qui
specifica come sia partito dall’analisi di un documento etnografico (la
campagna lucana) dove era possibile rintracciare “la sopravvivenza dell’antica
fascinazione stregonesca, in connessione con altri tratti magici affini, quali
la possessione e l’esorcismo, la fattura e la controfattura” (p. 181). Per
metterla in relazione “alla insicurezza della vita quotidiana, alla enorme
potenza del negativo e alla carenza di prospettive di azione realisticamente
orientata per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza” (ivi). Cioè,
quando l’individuo vive in condizioni arretrate, nelle quali non trova
strumenti concreti per fronteggiare e superare le difficoltà della propria
vita, si rifugia in una realtà mitica, magica, nella quale trova esempi delle
stesse difficoltà le quali, già una volta, sono state vinte grazie a certe
pratiche: il rituale ripete, in un mondo destoricizzato – sottratto cioè alle
condizioni reali nelle quali si vivono le proprie difficoltà – in cui ripetere
il prodigio irrazionale. Gli originali rituali pagani sono stati più che
sostituiti, rivestiti di un abito cattolico, e attraverso questa strada la
cultura bassa si è legata a quella alta: la differenza fra la religiosità
pagana e quella del cattolicesimo sta in un ampliamento della sfera della
spiritualità. La pratica magica stregonesca si limita a una parziale
reintegrazione dell’unità individuale in merito a problemi specifici – una
malattia, l’allattamento per le donne ecc. –, mentre l’orizzonte religioso
cattolico è quello di una reintegrazione religiosa generale: l’essere “in
grazia di Dio” aiuta in tutto.
Anche la
jettatura, legata alla cultura alta, si lega a un contesto socio-economico
arretrato. E perciò si diffonde a Napoli, provocando la curiosità e l’ironia
dei viaggiatori europei. L’avvento pur precoce dell’illuminismo a Napoli, fra
Seicento e Settecento, impediva di mantenersi in un orizzonte assolutamente irrazionale
(già nel Cinquecento, sottolinea de Martino, la magia naturale dei meridionali
Giordano Bruno e Tommaso Campanella operava in direzione della
razionalizzazione). Ma il mancato sviluppo economico e industriale non offriva
ai meridionali gli stessi strumenti concreti di dominio della realtà, che soli
avrebbero sottratto all’orizzonte magico. Si arriva allora a una situazione di
compromesso: non più la consapevolezza drammatica di una realtà misteriosa che
ci governa, che ci agisce, ma un atteggiamento ironico, scherzoso, che è quello
della credenza nella jettatura, cosa di cui si ha paura, ma di cui anche si
ride, come si ride della nostra stessa credenza: “non è vero, ma ci credo”
(così anche Benedetto Croce); oppure “non ci credo, ma è vero”. Interessante
l’analisi che de Martino fa del libro che Nicola Valletta pubblicò nel 1787,
intitolato Cicalata sul fascino, volgarmente detto jettatura (poi
disponibile nelle edizioni Colonnese di Napoli, con tanto di specchietto vero
in copertina). Per l’etnologo napoletano, il Valletta, nonostante il tono
scanzonato, crede fermamente nella jettatura, come starebbe a dimostrare il
fatto che l’autore mescola alla trattazione dell’argomento anche il riferimento
a episodi personali. La cultura europea romantica coeva confonde la jettatura,
che ha tale aspetto comico-grottesco, con il “demoniaco”, che ha toni ben più
drammatici, come per gli eroi di Byron; oppure si può ricordare come Alexandre
Dumas – che, in modo pur frettoloso, riesce a collegare forme di vita magico-religiosa
alta e bassa: nemica di Napoli è la jettatura, protettore è S. Gennaro afferma
il francese – non riesca a distinguere fra fascino e jettatura, non tenendo
conto che li differenzia il diverso grado di intenzionalità di nuocere che,
ovviamente, è più alto per il primo.
Nel
desiderio di de Martino di far chiarezza di un fenomeno non ristagna alcuna
complicità per tali atteggiamenti superstiziosi. Non c’è chiusura all’interno
di un orizzonte irrazionalista – vuoi quello rurale della fascinazione, vuoi
quello urbano della jettatura. “Anche per le genti meridionali si tratta di
abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia” e di
impegnarsi nella costruzione di “una civile città terrena unicamente affidata
all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene
di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è
figlio” (p. 184). La “crisi dell’esistenza” va superata allora non con il
folcloristico ritorno alle ombre della magia ma con la luce europea (e dunque
anche nostra) della ragione. Il Sud per crescere deve un po’ dimenticare di
essere Sud, deve smemorarsi di se stesso: la memoria sì, possiamo dire, ma che
non diventi un recinto maledetto che impedisce di costruire al di fuori – e
anche contro – di esso. Nietzsche stesso, parlando dell’utilità e dei danni
della storia nella sua famosa seconda “Inattuale”, aveva distinto fra storia
antiquaria e monumentale, da un lato, e storia critica – e costruttiva –
dall’altro. D’altra parte, come il filosofo francese Edgar Morin sottolinea nel
suo staccarsi dallo stalinismo, non si può negare che il magico agisca anche
laddove sembra dominare la pura ragione, o l’esercizio spregiudicato di essa
(come nello stalinismo stesso). Col magico dunque, così come ha fatto per tutta
la sua vita Ernesto de Martino (collegando tale interesse al precedente
sostrato marxista – come appunto Morin), bisogna fare i conti. Sarà dunque
possibile sottrarsi all’ambiguo fascino del Sud con questo tentativo –
freudiano – di allargare i territori della nostra consapevolezza, facendo luce
laddove era buio?
“Sangue
di Cristo, / demonio, attaccami a questo / tanto lo devi legare / che di me non
si deve scordare”. Così, a Colobraro, in provincia di Matera, si recita durante
la fascinazione erotica per conquistarsi un amante, reggendo, al momento
dell’elevazione durante la messa, un sacchetto con una polverina che contiene
tre gocce di sangue del mignolo destro e un ciuffo di peli di ascelle e pube. A
Viggiano, nel potentino, per vendicarsi si pronuncia questo malocchio: “Io ti
amo e ti rispetto / come al sangue mio. Tu sei traditore / io ti attaccherò. Io
ti attacco nel sangue”: in lucano, “io ti attacche a o’ sanghe”.
Attaccare
nel sangue, poi, significa aggredire le radici della persona stessa.
Fascinazione e malocchio non possono mancare neanche a proposito di matrimonio
e consumazione. Spesso invece, al contrario, bisogna “sfascinare” la vittima da
un precedente malocchio. Sempre a Viggiano, allora: “Chi t’ave affascinate? /
L’uocchie, la mente e la mala volontà / chi t’adda sfascinà? Lu Padre, lu
Figliolo e lo Spirito Santo”. E allora si ricorre al cosiddetto “maciaro”,
l’esperto di cose magiche – e ce n’erano di famosi nella Lucania degli anni
Cinquanta indagata dall’etnologo napoletano Ernesto de Martino. Se in altri
casi l’interesse cadeva su fenomeni popolar-religiosi come il “tarantolismo” pugliese,
in questo caso, in Sud e magia (ripubblicazione presso
l’editore originario Feltrinelli in “Campi del sapere” e nella “Universale
economica”, rispettivamente 2000 e 2001, è da quest’ultima che cito; poi
Feltrinelli 2013 e Donzelli 2015) l’oggetto d’analisi è la “fascinazione”, in
dialetto “fascinatura” o “affascino”.
Cos’è?
“Con questo termine – spiega in apertura l’autore – si indica una condizione
psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di
dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta
[…]. Col termine ‘affascino’ si designa anche la forza ostile che circola
nell’aria” (p. 15 dell’ “Universale”). Si tratta dunque di un “legamento”,
talvolta detto anche “attaccatura”, “attaccatura di sangue” (in alcuni casi,
certi soggetti si legavano davvero, con funi, inspiegabilmente, durante la
notte; de Martino ipotizza che tali legamenti avvenissero a opera dei familiari
in condizioni di trance). Quando c’è un agente umano colpevole intenzionalmente
della fascinazione, si parla allora di “malocchio” o di fattura”.
Ci
troviamo dunque a rileggere di nuovo queste pagine di de Martino, per un po’
escluso dalla rete di riferimenti della culturale ufficiale. Ma pronunciarsi
sulla definitiva uscita di scena di autori e problematiche – dando per conclusa
una certa stagione intellettuale – è sempre estremamente pericoloso e si corre
il rischio di essere puntualmente smentiti dall’evolversi di cose e idee. È il
caso appunto di de Martino (Napoli 1908 – Roma 1965), il cui “mondo popolare
subalterno” fa di nuovo – per dirla con lui – “irruzione nella storia”, almeno
nella storia editoriale e culturale dei nostri tempi contraddittori. La doppia
ripubblicazione di Sud e magia del 2000-2001, accanto alla
riedizione dell’altrettanto celebre La terra del rimorso (Net,
2002) sui tarantolati e dell’incompiuto La fine del mondo (Einaudi,
2002) sulle apocalissi, ci riporta agli Cinquanta e Settanta, quando le
tematiche di de Martino segnavano la vita culturale (con in più che ora si
sottolinea, accanto all’importanza dell’etnologo, lo spessore del filosofo).
Ne era
allora testimonianza un volumetto curato da Pietro Angelini, Dibattito
sulla cultura delle classi subalterne. 1949-50 (Savelli, 1977), che,
nel rinnovato interesse degli anni Settanta (e nel suo clima iperpolitico nel
quale parlare di “culturale popolare” significava ridare dignità a un mondo di
sfruttati), raccoglieva il dibattito suscitato dall’apparizione nel settembre
1949, nella prestigiosa rivista “Società”, del saggio demartiniano “Intorno a
una storia del mondo popolare subalterno”: fra l’altro il libro pubblicava
considerazioni di quel Cesare Pavese con il quale de Martino avrebbe diretto
nei primi anni del secondo dopoguerra la famosa “collana viola” dedicata da
Einaudi all’etnologia, prima che essa fosse rilevata da Boringhieri (il
carteggio relativo fra de Martino e Pavese è stato raccolto, sempre da
Angelici, in Cesare Pavese - Ernesto de Martino, La collana viola.
Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri 1991; esso testimonia di un rapporto
non sempre facile fra l’etnologo, impegnato politicamente fra Psi e Pci, e lo
scrittore, meno legato a una visione ideologica benché pur esso schierato a
sinistra). La collana curata a quattro mani dal piemontese e dal napoletano
prende l’avvio con un testo di de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni
a una storia del magismo” (ora Bollati Boringhieri 2000), apparso nel 1948,
a inaugurare quella serie di studi condotti anche sul campo che avrebbe visto,
nel 1959, l’uscita (non più per Einaudi) per l’appunto del nostro Sud e
magia.
Libro che
si presenta diviso in due parti, la prima dedicata alla “Magia lucana”, nella
quale più facilmente era possibile reperire tracce degli antichi rituali
stregoneschi pagani e medioevali; la seconda, invece, a “Magia, cattolicesimo e
alta cultura”, nella quale si esamina anche il fenomeno particolarmente
napoletano – ma, diremmo, non solo – della jettatura: un rapporto fecondo,
dunque, quello che de Martino viene qui a stabilire fra bassa e alta cultura.
Certi fenomeni popolari accadono perché si inseriscono in certe coordinate
culturali generali: il cattolicesimo rispetto al protestantesimo è senza dubbio
terreno di coltura più fertile per la conservazione e l’esercizio del magico.
Umberto Galimberti nell’introduzione sottolinea la specificità dello studio
demartiniano rispetto a quelli analoghi di Lucien Lévy-Bruhl, di
Marcel Mauss e di Carl Gustav Jung: essi si limitano, pur in migliaia di pagine,
a descrivere pratiche magiche, confrontate con rituali rintracciati in
territori diversi, senza l’individuazione e la delineazione dei vari contesti
storico-geografici, sola operazione che avrebbe permesso di comprendere,
interpretare e spiegare davvero l’essenza della magia e la sua funzione nelle
diverse costellazioni socio-culturali. De Martino, a differenza ad esempio
dello strutturalismo di un Claude Lévi-Strauss, che si propone di individuare
proprio le strutture portanti, costanti e rintracciabili in ogni cultura al di
là degli elementi contingenti (rispetto a questi isolandole e archiviandole in
un repertorio dei possibili e ricorrenti atteggiamenti umani sotto ogni
latitudine) – de Martino, dicevamo, sulla scorta del suo storicismo di matrice
hegelo-marxista-crociana, ricolloca ogni pratica nel suo contesto storico.
Scrive Galimberti: “Una pratica magica è leggibile solo se è storicizzata,
se è inserita in quella civiltà, in quell’epoca e
in quell’ambiente storico dove la comunità condivide quella mitologia
o quellareligione” (p. XI).
Nell’Epilogo
è de Martino stesso a tracciare un’efficace sintesi del suo lavoro. Qui
specifica come sia partito dall’analisi di un documento etnografico (la
campagna lucana) dove era possibile rintracciare “la sopravvivenza dell’antica
fascinazione stregonesca, in connessione con altri tratti magici affini, quali
la possessione e l’esorcismo, la fattura e la controfattura” (p. 181). Per
metterla in relazione “alla insicurezza della vita quotidiana, alla enorme
potenza del negativo e alla carenza di prospettive di azione realisticamente
orientata per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza” (ivi). Cioè,
quando l’individuo vive in condizioni arretrate, nelle quali non trova
strumenti concreti per fronteggiare e superare le difficoltà della propria
vita, si rifugia in una realtà mitica, magica, nella quale trova esempi delle
stesse difficoltà le quali, già una volta, sono state vinte grazie a certe
pratiche: il rituale ripete, in un mondo destoricizzato – sottratto cioè alle
condizioni reali nelle quali si vivono le proprie difficoltà – in cui ripetere
il prodigio irrazionale. Gli originali rituali pagani sono stati più che
sostituiti, rivestiti di un abito cattolico, e attraverso questa strada la
cultura bassa si è legata a quella alta: la differenza fra la religiosità
pagana e quella del cattolicesimo sta in un ampliamento della sfera della
spiritualità. La pratica magica stregonesca si limita a una parziale
reintegrazione dell’unità individuale in merito a problemi specifici – una
malattia, l’allattamento per le donne ecc. –, mentre l’orizzonte religioso
cattolico è quello di una reintegrazione religiosa generale: l’essere “in
grazia di Dio” aiuta in tutto.
Anche la
jettatura, legata alla cultura alta, si lega a un contesto socio-economico
arretrato. E perciò si diffonde a Napoli, provocando la curiosità e l’ironia
dei viaggiatori europei. L’avvento pur precoce dell’illuminismo a Napoli, fra
Seicento e Settecento, impediva di mantenersi in un orizzonte assolutamente irrazionale
(già nel Cinquecento, sottolinea de Martino, la magia naturale dei meridionali
Giordano Bruno e Tommaso Campanella operava in direzione della
razionalizzazione). Ma il mancato sviluppo economico e industriale non offriva
ai meridionali gli stessi strumenti concreti di dominio della realtà, che soli
avrebbero sottratto all’orizzonte magico. Si arriva allora a una situazione di
compromesso: non più la consapevolezza drammatica di una realtà misteriosa che
ci governa, che ci agisce, ma un atteggiamento ironico, scherzoso, che è quello
della credenza nella jettatura, cosa di cui si ha paura, ma di cui anche si
ride, come si ride della nostra stessa credenza: “non è vero, ma ci credo”
(così anche Benedetto Croce); oppure “non ci credo, ma è vero”. Interessante
l’analisi che de Martino fa del libro che Nicola Valletta pubblicò nel 1787,
intitolato Cicalata sul fascino, volgarmente detto jettatura (poi
disponibile nelle edizioni Colonnese di Napoli, con tanto di specchietto vero
in copertina). Per l’etnologo napoletano, il Valletta, nonostante il tono
scanzonato, crede fermamente nella jettatura, come starebbe a dimostrare il
fatto che l’autore mescola alla trattazione dell’argomento anche il riferimento
a episodi personali. La cultura europea romantica coeva confonde la jettatura,
che ha tale aspetto comico-grottesco, con il “demoniaco”, che ha toni ben più
drammatici, come per gli eroi di Byron; oppure si può ricordare come Alexandre
Dumas – che, in modo pur frettoloso, riesce a collegare forme di vita magico-religiosa
alta e bassa: nemica di Napoli è la jettatura, protettore è S. Gennaro afferma
il francese – non riesca a distinguere fra fascino e jettatura, non tenendo
conto che li differenzia il diverso grado di intenzionalità di nuocere che,
ovviamente, è più alto per il primo.
Nel
desiderio di de Martino di far chiarezza di un fenomeno non ristagna alcuna
complicità per tali atteggiamenti superstiziosi. Non c’è chiusura all’interno
di un orizzonte irrazionalista – vuoi quello rurale della fascinazione, vuoi
quello urbano della jettatura. “Anche per le genti meridionali si tratta di
abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia” e di
impegnarsi nella costruzione di “una civile città terrena unicamente affidata
all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene
di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è
figlio” (p. 184). La “crisi dell’esistenza” va superata allora non con il
folcloristico ritorno alle ombre della magia ma con la luce europea (e dunque
anche nostra) della ragione. Il Sud per crescere deve un po’ dimenticare di
essere Sud, deve smemorarsi di se stesso: la memoria sì, possiamo dire, ma che
non diventi un recinto maledetto che impedisce di costruire al di fuori – e
anche contro – di esso. Nietzsche stesso, parlando dell’utilità e dei danni
della storia nella sua famosa seconda “Inattuale”, aveva distinto fra storia
antiquaria e monumentale, da un lato, e storia critica – e costruttiva –
dall’altro. D’altra parte, come il filosofo francese Edgar Morin sottolinea nel
suo staccarsi dallo stalinismo, non si può negare che il magico agisca anche
laddove sembra dominare la pura ragione, o l’esercizio spregiudicato di essa
(come nello stalinismo stesso). Col magico dunque, così come ha fatto per tutta
la sua vita Ernesto de Martino (collegando tale interesse al precedente
sostrato marxista – come appunto Morin), bisogna fare i conti. Sarà dunque
possibile sottrarsi all’ambiguo fascino del Sud con questo tentativo –
freudiano – di allargare i territori della nostra consapevolezza, facendo luce
laddove era buio?
Ernesto de Martino, Sud e magia [1959], introduzione di Umberto Galimberti, Feltrinelli, Milano 2000, 2001; poi Feltrinelli, Milano 2013 e Donzelli, Roma 2015
(Originariamente apparso con il titolo Il Fascino ambiguo. Ripubblicato "Sud e Magia" dell'etnologo napoletano Ernesto De Martino, "Piazza Libertà", Avellino, martedì 13 agosto 2002, p. 6.)
©ENZO.REGA.IBALZIROSSI.IT