domenica 29 luglio 2018

Ernesto de Martino, "Sud e magia" (1959)

di
ENZO REGA




“Sangue di Cristo, / demonio, attaccami a questo / tanto lo devi legare / che di me non si deve scordare”. Così, a Colobraro, in provincia di Matera, si recita durante la fascinazione erotica per conquistarsi un amante, reggendo, al momento dell’elevazione durante la messa, un sacchetto con una polverina che contiene tre gocce di sangue del mignolo destro e un ciuffo di peli di ascelle e pube. A Viggiano, nel potentino, per vendicarsi si pronuncia questo malocchio: “Io ti amo e ti rispetto / come al sangue mio. Tu sei traditore / io ti attaccherò. Io ti attacco nel sangue”: in lucano, “io ti attacche a o’ sanghe”.
Attaccare nel sangue, poi, significa aggredire le radici della persona stessa. Fascinazione e malocchio non possono mancare neanche a proposito di matrimonio e consumazione. Spesso invece, al contrario, bisogna “sfascinare” la vittima da un precedente malocchio. Sempre a Viggiano, allora: “Chi t’ave affascinate? / L’uocchie, la mente  e la mala volontà / chi t’adda sfascinà? Lu Padre, lu Figliolo e lo Spirito Santo”. E allora si ricorre al cosiddetto “maciaro”, l’esperto di cose magiche – e ce n’erano di famosi nella Lucania degli anni Cinquanta indagata dall’etnologo napoletano Ernesto de Martino. Se in altri casi l’interesse cadeva su fenomeni popolar-religiosi come il “tarantolismo” pugliese, in questo caso, in Sud e magia (ripubblicazione presso l’editore originario Feltrinelli in “Campi del sapere” e nella “Universale economica”, rispettivamente 2000 e 2001, è da quest’ultima che cito; poi Feltrinelli 2013 e Donzelli 2015) l’oggetto d’analisi è la “fascinazione”, in dialetto “fascinatura” o “affascino”.
Cos’è? “Con questo termine – spiega in apertura l’autore – si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta […]. Col termine ‘affascino’ si designa anche la forza ostile che circola nell’aria” (p. 15 dell’ “Universale”). Si tratta dunque di un “legamento”, talvolta detto anche “attaccatura”, “attaccatura di sangue” (in alcuni casi, certi soggetti si legavano davvero, con funi, inspiegabilmente, durante la notte; de Martino ipotizza che tali legamenti avvenissero a opera dei familiari in condizioni di trance). Quando c’è un agente umano colpevole intenzionalmente della fascinazione, si parla allora di “malocchio” o di fattura”.
Ci troviamo dunque a rileggere di nuovo queste pagine di de Martino, per un po’ escluso dalla rete di riferimenti della culturale ufficiale. Ma pronunciarsi sulla definitiva uscita di scena di autori e problematiche – dando per conclusa una certa stagione intellettuale – è sempre estremamente pericoloso e si corre il rischio di essere puntualmente smentiti dall’evolversi di cose e idee. È il caso appunto di de Martino (Napoli 1908 – Roma 1965), il cui “mondo popolare subalterno” fa di nuovo – per dirla con lui – “irruzione nella storia”, almeno nella storia editoriale e culturale dei nostri tempi contraddittori. La doppia ripubblicazione di Sud e magia del 2000-2001, accanto alla riedizione dell’altrettanto celebre La terra del rimorso (Net, 2002) sui tarantolati e dell’incompiuto La fine del mondo (Einaudi, 2002) sulle apocalissi, ci riporta agli Cinquanta e Settanta, quando le tematiche di de Martino segnavano la vita culturale (con in più che ora si sottolinea, accanto all’importanza dell’etnologo, lo spessore del filosofo).
Ne era allora testimonianza un volumetto curato da Pietro Angelini, Dibattito sulla cultura delle classi subalterne. 1949-50 (Savelli, 1977), che, nel rinnovato interesse degli anni Settanta (e nel suo clima iperpolitico nel quale parlare di “culturale popolare” significava ridare dignità a un mondo di sfruttati), raccoglieva il dibattito suscitato dall’apparizione nel settembre 1949, nella prestigiosa rivista “Società”, del saggio demartiniano “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”: fra l’altro il libro pubblicava considerazioni di quel Cesare Pavese con il quale de Martino avrebbe diretto nei primi anni del secondo dopoguerra la famosa “collana viola” dedicata da Einaudi all’etnologia, prima che essa fosse rilevata da Boringhieri (il carteggio relativo fra de Martino e Pavese è stato raccolto, sempre da Angelici, in Cesare Pavese - Ernesto de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri 1991; esso testimonia di un rapporto non sempre facile fra l’etnologo, impegnato politicamente fra Psi e Pci, e lo scrittore, meno legato a una visione ideologica benché pur esso schierato a sinistra). La collana curata a quattro mani dal piemontese e dal napoletano prende l’avvio con un testo di de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo” (ora Bollati Boringhieri 2000), apparso nel 1948, a inaugurare quella serie di studi condotti anche sul campo che avrebbe visto, nel 1959, l’uscita (non più per Einaudi) per l’appunto del nostro Sud e magia.
Libro che si presenta diviso in due parti, la prima dedicata alla “Magia lucana”, nella quale più facilmente era possibile reperire tracce degli antichi rituali stregoneschi pagani e medioevali; la seconda, invece, a “Magia, cattolicesimo e alta cultura”, nella quale si esamina anche il fenomeno particolarmente napoletano – ma, diremmo, non solo – della jettatura: un rapporto fecondo, dunque, quello che de Martino viene qui a stabilire fra bassa e alta cultura. Certi fenomeni popolari accadono perché si inseriscono in certe coordinate culturali generali: il cattolicesimo rispetto al protestantesimo è senza dubbio terreno di coltura più fertile per la conservazione e l’esercizio del magico. Umberto Galimberti nell’introduzione sottolinea la specificità dello studio demartiniano rispetto a quelli analoghi  di Lucien Lévy-Bruhl, di Marcel Mauss e di Carl Gustav Jung: essi si limitano, pur in migliaia di pagine, a descrivere pratiche magiche, confrontate con rituali rintracciati in territori diversi, senza l’individuazione e la delineazione dei vari contesti storico-geografici, sola operazione che avrebbe permesso di comprendere, interpretare e spiegare davvero l’essenza della magia e la sua funzione nelle diverse costellazioni socio-culturali. De Martino, a differenza ad esempio dello strutturalismo di un Claude Lévi-Strauss, che si propone di individuare proprio le strutture portanti, costanti e rintracciabili in ogni cultura al di là degli elementi contingenti (rispetto a questi isolandole e archiviandole in un repertorio dei possibili e ricorrenti atteggiamenti umani sotto ogni latitudine) – de Martino, dicevamo, sulla scorta del suo storicismo di matrice hegelo-marxista-crociana, ricolloca ogni pratica nel suo contesto storico. Scrive Galimberti: “Una pratica magica è leggibile solo se è storicizzata, se è inserita in quella civiltà, in quell’epoca e in quell’ambiente storico dove la comunità condivide quella mitologia o quellareligione” (p. XI).
Nell’Epilogo è de Martino stesso a tracciare un’efficace sintesi del suo lavoro. Qui specifica come sia partito dall’analisi di un documento etnografico (la campagna lucana) dove era possibile rintracciare “la sopravvivenza dell’antica fascinazione stregonesca, in connessione con altri tratti magici affini, quali la possessione e l’esorcismo, la fattura e la controfattura” (p. 181). Per metterla in relazione “alla insicurezza della vita quotidiana, alla enorme potenza del negativo e alla carenza di prospettive di azione realisticamente orientata per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza” (ivi). Cioè, quando l’individuo vive in condizioni arretrate, nelle quali non trova strumenti concreti per fronteggiare e superare le difficoltà della propria vita, si rifugia in una realtà mitica, magica, nella quale trova esempi delle stesse difficoltà le quali, già una volta, sono state vinte grazie a certe pratiche: il rituale ripete, in un mondo destoricizzato – sottratto cioè alle condizioni reali nelle quali si vivono le proprie difficoltà – in cui ripetere il prodigio irrazionale. Gli originali rituali pagani sono stati più che sostituiti, rivestiti di un abito cattolico, e attraverso questa strada la cultura bassa si è legata a quella alta: la differenza fra la religiosità pagana e quella del cattolicesimo sta in un ampliamento della sfera della spiritualità. La pratica magica stregonesca si limita a una parziale reintegrazione dell’unità individuale in merito a problemi specifici – una malattia, l’allattamento per le donne ecc. –, mentre l’orizzonte religioso cattolico è quello di una reintegrazione religiosa generale: l’essere “in grazia di Dio” aiuta in tutto.
Anche la jettatura, legata alla cultura alta, si lega a un contesto socio-economico arretrato. E perciò si diffonde a Napoli, provocando la curiosità e l’ironia dei viaggiatori europei. L’avvento pur precoce dell’illuminismo a Napoli, fra Seicento e Settecento, impediva di mantenersi in un orizzonte assolutamente irrazionale (già nel Cinquecento, sottolinea de Martino, la magia naturale dei meridionali Giordano Bruno e Tommaso Campanella operava in direzione della razionalizzazione). Ma il mancato sviluppo economico e industriale non offriva ai meridionali gli stessi strumenti concreti di dominio della realtà, che soli avrebbero sottratto all’orizzonte magico. Si arriva allora a una situazione di compromesso: non più la consapevolezza drammatica di una realtà misteriosa che ci governa, che ci agisce, ma un atteggiamento ironico, scherzoso, che è quello della credenza nella jettatura, cosa di cui si ha paura, ma di cui anche si ride, come si ride della nostra stessa credenza: “non è vero, ma ci credo” (così anche Benedetto Croce); oppure “non ci credo, ma è vero”. Interessante l’analisi che de Martino fa del libro che Nicola Valletta pubblicò nel 1787, intitolato Cicalata sul fascino, volgarmente detto jettatura (poi disponibile nelle edizioni Colonnese di Napoli, con tanto di specchietto vero in copertina). Per l’etnologo napoletano, il Valletta, nonostante il tono scanzonato, crede fermamente nella jettatura, come starebbe a dimostrare il fatto che l’autore mescola alla trattazione dell’argomento anche il riferimento a episodi personali. La cultura europea romantica coeva confonde la jettatura, che ha tale aspetto comico-grottesco, con il “demoniaco”, che ha toni ben più drammatici, come per gli eroi di Byron; oppure si può ricordare come Alexandre Dumas – che, in modo pur frettoloso, riesce a collegare forme di vita magico-religiosa alta e bassa: nemica di Napoli è la jettatura, protettore è S. Gennaro afferma il francese – non riesca a distinguere fra fascino e jettatura, non tenendo conto che li differenzia il diverso grado di intenzionalità di nuocere che, ovviamente, è più alto per il primo.

Nel desiderio di de Martino di far chiarezza di un fenomeno non ristagna alcuna complicità per tali atteggiamenti superstiziosi. Non c’è chiusura all’interno di un orizzonte irrazionalista – vuoi quello rurale della fascinazione, vuoi quello urbano della jettatura. “Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia” e di impegnarsi nella costruzione di “una civile città terrena unicamente affidata all’ethos  dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio” (p. 184). La “crisi dell’esistenza” va superata allora non con il folcloristico ritorno alle ombre della magia ma con la luce europea (e dunque anche nostra) della ragione. Il Sud per crescere deve un po’ dimenticare di essere Sud, deve smemorarsi di se stesso: la memoria sì, possiamo dire, ma che non diventi un recinto maledetto che impedisce di costruire al di fuori – e anche contro – di esso. Nietzsche stesso, parlando dell’utilità e dei danni della storia nella sua famosa seconda “Inattuale”, aveva distinto fra storia antiquaria e monumentale, da un lato, e storia critica – e costruttiva – dall’altro. D’altra parte, come il filosofo francese Edgar Morin sottolinea nel suo staccarsi dallo stalinismo, non si può negare che il magico agisca anche laddove sembra dominare la pura ragione, o l’esercizio spregiudicato di essa (come nello stalinismo stesso). Col magico dunque, così come ha fatto per tutta la sua vita Ernesto de Martino (collegando tale interesse al precedente sostrato marxista – come appunto Morin), bisogna fare i conti. Sarà dunque possibile sottrarsi all’ambiguo fascino del Sud con questo tentativo – freudiano – di allargare i territori della nostra consapevolezza, facendo luce laddove era buio? 

Ernesto de Martino, Sud e magia [1959], introduzione di Umberto Galimberti, Feltrinelli, Milano 2000, 2001; poi Feltrinelli, Milano 2013 e Donzelli, Roma 2015


(Originariamente apparso con il titolo Il Fascino ambiguo. Ripubblicato "Sud e Magia" dell'etnologo napoletano Ernesto De Martino, "Piazza Libertà", Avellino, martedì 13 agosto 2002, p. 6.)

©ENZO.REGA.IBALZIROSSI.IT

giovedì 5 luglio 2018

Pasolini: Semiologia del reale

di
ENZO REGA





Cominciamo da una questione apparentemente “superata”, ora che internet è ben più invasivo: l’ossessione di Pasolini contro la televisione. In un certo momento storico italiano (e non solo) è sembrata pienamente realizzata la profezia pasoliniana per la quale il potere economico avrebbe fatto a meno della mediazione del potere politico uscendo allo scoperto. Nello stesso tempo esso sarebbe stato potere televisivo, con una televisione che avrebbe svelato vieppiù il suo volto, legata al potere economico-politico e strumento d’istigazione al consumismo: il berlusconismo è stato tutto questo, con una televisione commerciale nella quale un Mike Bongiorno, sua incarnata epifania, considera che il successo di un programma non è più determinato dall’audience ma dall’aumento di vendita dei prodotti reclamizzati. La critica di Pasolini al consumismo si dispiega quando il fenomeno da noi è all’inizio: da un lato è la virtù profetica, dall’altro la capacità di “gigantografare” il proprio Paese, in una sorta di blow-up, anche sulla scorta di quanto ha visto nei propri viaggi americani, a New York, nel 1966 e nel 1969: uno stadio avanzato sia di quello che il “corsaro” chiama “edonismo consumistico” sia dell’uso in tal senso del mezzo televisivo. Dell’esperienza americana è testimonianza un libro uscito in Francia e che traduce una vecchia intervista, a lungo inedita, concessa nel 1969 all’allora direttore dell’Istituto italiano di cultura, L'inédit de NewYork. Entretien avec Giuseppe Cardillo (Arléa, Paris 2015, pp. 96, € 7; l’editore sta pubblicando varie traduzioni da Pasolini). Ed è qui, nella civiltà dei consumi, con un Marcuse fisicamente poco lontano (l’omologazione pasoliniana non è un corrispettivo de “l’uomo a una dimensione” marcusiano?), che Pasolini ammette di star facendo, dopo il Vangelo, film che si allontanano dalla narrazione epico-mitica muovendo verso parabole soggettive di stampo problematico-provocatorio, un cinema che si ispira, più che al Godard suggerito dall’intervistatore, a Brecht: un cinema, afferma Pasolini “sempre più difficile, più aspro, più complicato, e anche più provocatorio”; o un teatro elitario, non serializzabile, non medium di massa; o una “poesia sgradevole, spiacevole, una poesia il meno possibile consumabile” (la citazione è dall’edizione italiana, uscita in occasione del trentennale della morte: Pasolini rilegge Pasolini. Intervista con Luigi Cardillo, a cura e con un saggio di Luigi Fontanella, Archinto Milano 2005).
   Dunque, l’identificazione potere economico-politico-televisivo potrebbe apparire alle spalle, conclusasi la parabola berlusconiana. Ma lo stesso successivo governo Monti non ha visto “scendere in campo” direttamente il mondo dell’economia? E quali poteri e interessi economici si nascondono dietro il renzismo, nuova maschera che l’economico assume attraverso il politico, tornando a servirsene come mediazione nell’età del potere economico globalizzato-mediatizzato? La televisione, per Pasolini, non alleva un cittadino, ma un consumatore: ciò che, a mutazione antropologica ormai avvenuta, per un sociologo à la page come Zygmunt Bauman è homo consumens in un mondo nel quale le esistenze di chi non consuma sono “vite di scarto”. Ma il Pasolini degli Scritti corsari già scrive: “L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui ‘deve’ obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”. Queste analisi, considerate di ripiegamento nostalgico, sono invece sul tavolo dell’odierno dibattito sociologico.
Di “immaginazione sociologica” in Pasolini parla Alfonso Berardinelli (recuperando l’espressione del sociologo americano Charles Wright Mills) nella sua Prefazione all’edizione 2008 ripresa nella nuova edizione 2015 degli Scritti corsari. Anche se da Horkheimer, Adorno e Marcuse, fino indietro allo stesso Marx, nota Berardinelli, tutto era stato già detto, la forza argomentativa e polemica di Pasolini, la sua semiologia del reale, danno molti frutti; egli “sa ricavare una tale visione d’insieme da una base empirica limitata alla propria esperienza personale e occasionale (ma del resto da dove derivava tutto il sapere ‘sociologico’ dei grandi romanzieri del passato, da Balzac e Dickens in poi, se non dalla loro capacità di vedere quello che avevano sotto gli occhi?)”, e continua, su Pasolini: “Si resta sbalorditi soprattutto, direi, dall’inventività inesauribile del suo stile saggistico e polemico, dalla selvaggia energia e astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica, dalla sua ‘psicagogia’ che sa far emergere con tanta chiarezza i pregiudizi intellettuali (di ceto, di casta), e spesso l’ottusità un po’ meschina e persecutoria dei suoi interlocutori”, che si arroccano in difesa di “nozioni acquisite” mentre lui a loro cerca di “rivelare qualcosa di nuovo”. Forse era tutto già detto, ma gli altri continuano a non vedere ciò che è sotto il loro naso: la sparizione di un mondo. Gli Scritti corsari, per Berardinelli, registrano tutta la “realtà emotiva e morale di questo lutto”, con quella tipica “ragione autobiografica” che in Pasolini tiene insieme corpo e mente, vicende personali e analisi socio-politica, con un “protagonismo vittimistico” nel quale l’intellettuale espone e mette in gioco l’uomo. Quell’insieme di Passione e ideologia che dà il titolo ai saggi del 1960, ma il cui connubio sostanzia, come nota Giuseppe Leonelli nella sua Prefazione all’edizione 2009 de Le ceneri di Gramsci, gli stessi componimenti poetici del tempo (la raccolta, “poesia dell’ideologia” ma non “ideologica” come disse Pampaloni, è del 1957). Scrive Leonelli: “versi zoppicanti, e quindi imperfetti …, ma in realtà affannati, come sottesi da una sorta di extrasistole metrica, un segno, tra i più intensi di una volontà insieme irruenta e ansiosa, anch’essa costellata di passione, di comunicare con il lettore”; versi nei quali fecondare il corpo della realtà facendo parlare le cose (è Pasolini a dirlo). “Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari – scrive ancora Berardinelli – resta uno dei rari esempi di critica radicale della società sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata e ricca di descrizioni … è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra cultura letteraria...”.
   Nell’estremo epilogo della parabola esistenziale e intellettuale di Pasolini, questa raccolta d’interventi, uscita nel 1975, fa il paio con le postume Lettere luterane del 1976, nelle quali il “grande tema” resta la “mutazione antropologica”. Tanto che, come ricorda Guido Crainz nella Prefazione all’edizione Garzanti 2009 (ripresa nell’edizione 2015), Pasolini invita a leggere le Lettere insieme alla nuova stesura de La meglio gioventù, nella quale l’aga frescia del me paìs si trasforma in l’aga vecja di un paìs no me. Il che ci mostra come il lavoro di Pasolini si dispieghi come un’opera aperta (così considera specificamente i suoi Scritti corsari), nella quale le diverse scritture – saggistica, polemistica, poetica, narrativa, filmica – portano avanti uno stesso contraddittorio discorso in una drammatica coerenza di fondo. La mutazione antropologica è ora nei dibattiti attuali sulle “nuove identità” globalizzate: pensiamo ai mediascapes dell’antropologo indiano Arjun Appadurai. Pasolini la declina però in relazione alla “costruzione di identità” nel “fare gli italiani”, al tempo della “grande trasformazione” degli anni Cinquanta-Sessanta, in cui si va modificando quell’Italia che il poemetto storico-geologico-antropologico L’Appennino, ne Le ceneri di Gramsci, percorre da un capo all’altro. E anche nelle Lettere si reiterano le critiche a consumi e media, legandole all’attacco al Palazzo, fino alla paradossale proposta di abolire televisione e scuola Riflessioni, scrive Crainz, “legate solo in parte al clima in cui furono scritte: sono cioè una bussola capace di guidarci lucidamente anche negli anni trascorsi da allora”, benché quel clima plumbeo, clerico-fascista, tra stragi e corruzione, resti fondamentale nel “vissuto immediato” e nella riflessione che ne scaturisce. Nonostante spiragli positivi, l’analisi rimane lucida e negativa, come per il referendum del 1974 sul divorzio. Scrive Pasolini: “la mia opinione è che il 59% dei ‘no’ non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progressismo e della democrazia: niente affatto. Esso sta a dimostrare invece … che i ‘ceti medi’ sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi non sono più quelli sanfedisti e clericali ma sono i valori … dell’ideologia edonistica e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano”. L’America che è già l’aiuta a intravedere l’Italia che sarà.

 ©ENZO.REGA.IBALZIROSSI.IT
©L'INDICE DEI LIBRI DEL MESE


Pubblicato in "L'indice dei libri del mese", n. 1, Gennaio 2016 


I libri di Pier Paolo Pasolini citati
L’Inèdit de NewYork.  Entretien avec Giuseppe Cardillo, traduit de l’italien par Anne Bourguignon, pp.96 , € 7, Arléa, Paris 2015.
Pasolini rilegge Pasolini. Intervista con Luigi Cardillo, a cura e con un saggio di Luigi Fontanella, con CD, pp. 65, € 20, Archinto, Milano 2005.
Scritti corsari, pref. di Alfonso Berardinelli, pp. XII-260, € 12, Garzanti, Milano 2015.
Le ceneri di Gramsci, pref. di Giuseppe Leonelli, pp. XI-108, € 11, Garzanti, Milano 2015.
Lettere luterane, pref. di Guido Crainz, pp. 225, € 13, Garzanti, Milano 2015.