sabato 29 settembre 2018

Ermanno Rea, La parola del padre: Caravaggio e l'inquisitore


di
ENZO REGA




Il “padre” a cui si riferisce Ermanno Rea nel titolo di questo libretto postumo è, innanzitutto, la Chiesa cattolica, cui l’italiano – suddito più che cittadino – ha imparato a sottomettersi, cedendo il proprio senso di responsabilità, come colui che si nasconde sotto la tutela del genitore. Nel testo l’Inquisitore declina quattro figure del “paterno”: “In cima c’è Lui, il Padre di tutti, il Padre Eterno. Subito dopo c’è il Santo Padre. Quindi c’è il padre politico, il Cesare. Infine il padre naturale”. Tutte incarnazioni dell’autorità, ingranaggi di quella “macchina dell’obbedienza” come qui Rea ribattezza quella che nel suo pamphlet saggistico aveva chiamato La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani (Feltrinelli, 2011).
La parola del padre riprende, sintetizza e riarticola in un monologo immaginario tenuto da un Inquisitore – monologo che Caravaggio ricorda o crede di ricordare (non vero, ma “verosimile”) – le tesi di quel saggio nel quale si sostiene che la mancanza di senso civico degli italiani, e la disponibilità a sottomettersi all’uomo forte di turno, è il frutto del potere incontrastato della Chiesa cattolica in un Paese nel quale è mancato lo scossone della Riforma protestante che ha posto ciascuno di fronte alla propria personale responsabilità. Tuttavia – questa la tesi del nuovo testo – di fronte al “suddito de-responsabilizzato” si è presentata anche in Italia la figura di un “cittadino responsabile” (“merce ora irreperibile nel Magazzino-Italia”), non importata d’Oltralpe ma frutto della breve stagione del Rinascimento, la cui nostalgia l’Inquisitore rimprovera nella sua requisitoria (non un processo ma ammonimento) a Caravaggio. La sua attività pittorica viene posta sotto la lente d’ingrandimento in stretta relazione con l’opera filosofica di un altro grande erede del Rinascimento, parimenti non complice del potere: Giordano Bruno. Ed è questo uno degli aspetti più suggestivi del testo, come suggestiva è l’ipotesi che Caravaggio fosse presente in Campo dei Fiori, a Roma, il 17 febbraio del 1600, ad assistere al rogo di Bruno.
Ma quali sono gli aspetti della “pittura eretica” di Caravaggio che più richiamano il pensiero del Nolano? Passando in rassegna La morte della vergine, San Matteo e l’angelo, San Francesco in meditazione e vari San Giovanni Battista, Rea ricava un assunto di base, incentrato sulla bruniana “esasperazione realistica”, per la quale dio e il sacro sono nella natura, nelle cose terrene, in quelle tra esse più umili; una sacralità tutta e solo immanente che avrebbe trovato d’accordo un Pasolini che qui non può essere nominato per questioni di anacronismo. E l’Inquisitore, a proposito del San Matteo, osserva: “Opera meravigliosa, niente da dire. Soltanto che si fa fatica a identificare quella figura di popolano nerboruto con un santo. Lo si direbbe piuttosto un contadino incolto, rozzo…”. E più in generale: “E racconta [l’opera pittorica] della vostra passione, di anno in anno, sempre più incontenibile, per uomini e donne di basso rango; della vostra smania di riprodurre sulla tela bari, indovini, musici, ubriaconi, tavernieri; del vostro concepire la pittura quasi come cronaca o specchio di quella vita degradata che alligna ai margini di tutte le città – ma soprattutto oggi qui a Roma, diventata la capitale di ogni genere di malaffare – nella convinzione che è là che Dio va cercato. Per voi insomma è la carne il luogo di residenza di ogni verità. E questa, prima ancora che una bestemmia, è un’eresia… ogni vostro quadro è uno scandalo, perché ogni vostro quadro tende ad attribuire alla Chiesa di Roma una sorta di sfacciata preferenza per lo sfarzo e il mondo dei ricchi”. Un egualitarismo, quello di Michelangelo Merisi, che s’apparenta con la visione bruniana, e che trova riconferma nell’immagine caravaggesca del San Francesco ritratto in un saio di “panno logoro, lacero, bucherellato”. L’atto di obbedienza chiesto a Caravaggio fa tutt’uno con il ripudio delle concezioni bruniane: “Rinnegate l’apostata! Rinnegate la sua mens insita omnibus, subdola manipolazione della trascendenza!”. Rinunciando a un dio trascendente, Caravaggio – con Bruno – rinuncia a un codice eterno per abbandonarsi a un terreno relativismo che finisce per colorarsi di pessimismo. Il codice eterno è quella “parola del padre”, dell’autorità, del potere costituito che Caravaggio e Bruno rifiutano di ascoltare.
Tutto ciò è da Rea disciolto narrativamente grazie alla sua capacità affabulatoria, con un Caravaggio che non parla mai e replica soltanto con gesti ed espressioni. Il testo era stato scritto per un video non più realizzato e per il quale – a mo’ di sceneggiatura – Lino Fiorito aveva disegnato un efficace storyboard ripreso ora nel libro per volontà dello stesso scrittore napoletano che aveva avuto il tempo di concordare la pubblicazione con l’editore. Lasciandoci un’estrema testimonianza della propria passione civile e un nuovo capitolo sul nostro (mal)costume nazionale.

 Ermanno Rea, La parola del padre. Falso storico in forma di monologo, Caravaggio e l'inquisitore, 
pp. 96, euro 14,00, on uno storyboard di Lino Fiorito, Manni, Lecce 2017


* (Apparso originariamente ne "L'indice dei libri del mese")

lunedì 17 settembre 2018

Lettera da Parigi sulla poesia mediterranea

di
ENZO REGA







Paris-Orly, 26 agosto 2010


   Senza dubbio, tra le capitali nord europee, Parigi è la più meridionale, la più mediterranea. A poca distanza da Londra, il cielo di Parigi parla da solo (eppure, m’è capitato d'imbattermi in un azzurro cielo londinese, ma l'azzurro di quello parigino ha una profondità e un'intensità diverse). Con questo sguardo da nord, per quanto un nord vicino, mi viene fatto meglio di parlare della nostra "Poesia Meridiana". Che non sia chiusura allora in un orizzonte, per quanto grande e grato: ma punto di partenza verso altre direttrici e punto di convergenza. Già il fatto che la poesia del sud sia stata intesa non solo in relazione al meridione d'Italia, ma si si sia aperta al Mediterraneo, e quindi ai Sud del mondo, evita questa possibile chiusura etnocentrica. Nell'incontro sulla poesia in Campania (II edizione del Festival della poesia del Sud... e per il Sud),[1] ho avuto anch'io, penso, nel mio piccolo, il merito di richiamare l'attenzione sul fatto che la "questione meridionale" ormai andava necessariamente declinata, aggiornandola in risposta alle sfide d'un mondo globalizzato e globalizzante, come "questione mediterranea".
   Il che significa poi altre cose, al di là dell'orizzonte squisitamente e esclusivamente geografico. Sventolare la bandiera del Sud, agitare la questione meridionale, ha, insieme e attraverso quello culturale (antropologico-culturale e cultural-letterario), un significato politico. Già negli anni settanta, quando si consumavano gli ultimi fuochi d'un impegno politico - che sembrava nuovo, per come veniva declinato dal Movimento, ma era ancora legato al vecchio mondo moderno che si avviava a essere superato dal disimpegno della postmodernità -, già allora, insomma si capiva come la vecchia questione marxista del conflitto tra le classi - borghesia/proletariato - nella dimensione planetaria sarebbe diventata necessariamente rapporto Nord/Sud.
   E eccoci qui: schierarsi per il Sud significava essere al fianco del nuovo proletariato mondiale. Non è dunque, non dovrebbe perlomeno essere una sorta di sciovinismo au contraire. Per quanto mi riguarda, non mi sento di dire che il Sud sia sempre più "bello", così come non direi che il popolo (inteso socialmente come classe o antropologicamente come mondo contadino) sia necessariamente e sempre più "buono". E non so se il vecchio mondo contadino sia una sorta di paradiso al quale tornare. Ma non è questo il problema. Credo. La questione è invece che, se sono crollati i sistemi pseudo-para-socialisti, a sua volta il mondo capitalistico - che identifichiamo con il Nord e con l'Occidente - continua a non sembrarci in grado di risolvere il problema della felicità dell'umanità.
   Allora, quel Sud, con il quale politicamente ci schieriamo, da punto di partenza di direttrici mentali con le quali giudicare il resto del mondo, diventa punto di convergenza per individuarvi, ritrovarvi quegli elementi di vivibilità umana, sociale che il mondo globalizzato va smarrendo, forse ha perduto completamente.
   La Poesia Meridiana, allora, è la voce di queste terre, il grido di questi popoli, il campo sul quale si gioca la possibilità d'un'alternativa. Non so - non so neanche questo - se ciò che rimane lo fondano i poeti, come diceva Hӧlderlin ripreso da Heidegger, e se la poesia salverà la vita. Semplicemente, certi poeti ci dicono - e meglio - ciò che pensiamo. E ce lo ricordano quando non siamo capaci di tenere noi sveglio il nostro pensiero, la nostra sensibilità.



[1] Mi riferisco agli incontri del Centro di poesia di Paolo Saggese, Giuseppe Iuliano, Alessandro Di Napoli con sede a Nusco (Avellino). Questa “corrispondenza”, rimasta inedita credo, mi fu chiesta da loro. Mi pare importante (ri)proporla proprio in questi tempi infausti. In questa tragica rinnovata centralità del Mediterraneo.