di
ENZO REGA
“Spesso alla sera, durante la degenza, aveva pensato al vento che precede la notte,
dopo che il giorno con un piccolo scarto di luce, più spoglia o più velata, ha
annunciato la fine. Le onde all’orizzonte sempre alto si mettevano a scorrere,
trascinate dal sole”. Questo è l’incipit dell’ultimo romanzo che ci ha lasciato
Francesco Biamonti, lo scrittore ligure scomparso un anno fa, il 17 ottobre. Un
inizio già presago della fine, anche se qui si parla della conclusione del
giorno. Ma, letto col senno di poi, appare come un congedo nel quale compaiono,
in lascito, gli elementi materici fondamentali, essenziali, della sua
scrittura: il vento, la notte, la luce, il mare, il sole, la sera. Già con
questo breve assaggio è possibile apprezzare la grana della sua voce: la
screziatura lirica che non ostacola il dispiegarsi della narrazione. Biamonti
sapeva raccontare, far procedere una storia, tenendo alto il livello poetico
della prosa adoperata. Qualcuno ha parlato ovviamente di “poème en prose”, per
ascrivere questa caratteristica stilistica in una “tabula” dei meriti o dei
demeriti, a seconda dei casi e delle preferenze del critico. A ogni modo, per
noi che amavamo (che amiamo) questa scrittura, essa era (è) un esempio di come
si possa scrivere del nostro mondo – di cui parlava costantemente Biamonti –
senza scendere a compromessi con la trivialità della chiacchiera quotidiana e
con la sua lingua logorata da un uso maldestro. Ricordo che una volta, venuto a
Bergamo, dove io vivevo allora, per la presentazione dell’ultimo suo libro a
Villa d’Almè, organizzata con Corrado Benigni, si chiedeva – chiedeva a Giorgio
Martini che accompagnava lui e Marco de Carolis in auto – come potesse scrivere
dell’“autogrill”, senza usare questo termine.
In quell’occasione, con Marco, nella primavera del 1998 avevamo appunto
presentato il suo libro. Ma, grazie a Marco, avevo conosciuto Biamonti in
Liguria, nel paese dove era nato e dove abitava, a San Biagio della Cima,
nell’entroterra di Ventimiglia, in quel tratto di costa ligure di Ponente che
era stato di Italo Calvino, e che ora vede muoversi Nico Orengo. Orengo, fu lui
a proporre a Calvino il primo libro di Biamonti. Di questi contatti rimane
traccia nell’epistolario calviniano: “Caro Signor Biamonti – scriveva infatti
Calvino da Roma il 21 ottobre 1981 – Nico Orengo mi ha dato il manoscritto del
Suo romanzo ‘L’Angelo di Avrigue’. L’ho letto con molto interesse, contento di
trovare una personalità di scrittore nuova e inattesa”. E, ancora, rispetto al
carattere specifico della sua scrittura: “Il lirismo del linguaggio ha la sua
efficacia […]. Quello che Lei vuole fare è una cosa molto difficile: dare al
linguaggio la concretezza d’un lessico molto preciso (nelle cose della campagna
come nei nomi delle stelle) e insieme un alone di vibrazione lirica”. Anche se
poi lo scrittore sanremese avanzava qualche rilievo critico. Ma continuiamo a
presentare l’opera di Biamonti con le parole
di Calvino, che possono valere pure per le opere a seguire: “Quello che il Suo
romanzo è riuscito a rappresentare, credo per la prima volta, è un’immagine
della Liguria che comprende insieme la vita agricola dell’entroterra, dura e
aspra e povera, e il modello di vita facile della Riviera che ora prende
l’aspetto tragico della droga come consumo di massa”. Tre osservazioni a
partire da qui. Primo: nelle case editrici, allora (inizio anni Ottanta)
c’erano, a prendere decisioni, scrittori del calibro di Calvino che sapevano
davvero leggere “i libri degli altri” e scegliere in base a considerazioni di
carattere letterario. Secondo: la critica di certi aspetti della vita della
costa e comunque dei guasti della “modernità” era tema caro anche allo stesso Calvino
(si pensi a “La speculazione edilizia”) e ora lo è per Orengo (vedi ad esempio
il suo recente “La curva del Latte”). Terzo: nell’elenco delle parole-chiave
della letteratura di Biamonti, fatto in apertura, manca ancora il riferimento
agli ulivi (quegli “ulivi incielati”, come li chiama ne “Le parole la notte”:
“Che ne sarà un giorno dei miei ulivi con la loro purezza francescana? E dei
loro licheni, delle loro muffe? Lavorano notte e giorno, sotto il sole e le
stelle per aggiogare la terra al cielo”); e vanno ricordati i terrazzamenti
tipici dell’agricoltura ligure, le pietre di una natura che si presenta scabra
e spigolosa, i sentieri che si inerpicano nell’interno, e che servivano
(servono) anche ai “passeur” per condurre i clandestini oltre la vicina
frontiera francese. Anche gli immigrati, arabi, neri, popolano i libri di
Biamonti. E bisogna aggiungere un altro punto. Quarto: la lettera di Calvino è
dell’81, il primo libro di Biamonti di cui si parla è uscito nel 1983 – e
Biamonti era nato nel 1933. Un tardo esordio, dunque, a cinquant’anni, dopo una
vita passata a coltivare campi, con parentesi sindacali; ma anche in seguito
Biamonti ha pubblicato poco, solo altri tre libri. Tutti frutto di una lunga
decantazione e di un lavoro di essenzializzazione. Francesco sembra aver
passato il tempo più che a scrivere, a sfrondare, limare, ripulire i suoi
testi. Avevo detto, nell’occasione bergamasca, che mi veniva fatto di ricordare
quanto Leonardo Sciascia, altro autore mediterraneo, a sud, aveva scritto nella
postilla a “Il giorno della civetta”: qui Sciascia si scusava di non aver avuto
tempo per rendere più breve (più essenziale) il suo già scarno romanzo.
Biamonti questo tempo se l’è preso. Il dispiacere rimane a noi di poter leggere
e rileggere i soli quattro libri che alla fine ci sono rimasti. So che stava
lavorando a un nuovo romanzo che – mi diceva – voleva differenziare dagli
altri, stando, così si esprimeva, più a ridosso delle cose. Non so cosa
intendesse. Due giovani ricercatrici genovesi, mi informa Marco de Carolis,
stanno esaminando le carte che ha lasciato: vedremo cosa verrà fuori. Per
interessamento, fra gli altri, di Francesco Improta, docente napoletano
immigrato a Ventimiglia, sta poi nascendo l’associazione degli “Amici di
Francesco Biamonti” (presso il Comune, piazza 4 novembre, S. Biagio della Cima
– Imperia).
Tornando a me, che un poco e
purtroppo per poco fui suo amico, ho incontrato Biamonti un’altra volta a San
Biagio, sempre intorno a qualcosa da mangiare e da bere, il Rossese delle sue
terre. Parlare con lui significava fumare il fumo delle sue mille sigarette (di
questo si è ammalato). Ecco, di fronte a te, il suo volto rugoso con i capelli
immacolati e gli occhi blu (li ricordo blu, azzurri; qualcuno ha scritto che
erano del colore dei suoi ulivi) era immerso in una nuvola – nella quale
sembrava sperso anche lui a rintracciare il filo d’un pensiero – e da questa
nuvola usciva il suono delle sue parole, con una voce roca che ricordava quella
di Ungaretti, e bassa, per cui dovevi farti più vicino possibile per non
perdere nulla dei suoi riferimenti che andavano dalla letteratura (un amore in
particolare, ricambiato, per la Francia dove qualcuno lo considerava “il” più
importante scrittore italiano allora vivente) alla filosofia, nella quale,
diceva, era solo un dilettante. E la pittura e la musica: Cezanne, Debussy,
Messiaen. E inevitabilmente snocciolava il suo pessimismo, da antico moralista
(da moralista antico). Nell’incontro di Villa d’Almè, alla domanda di una
ragazza che chiedeva cosa sperare nel futuro, era stato particolarmente
drastico, e negativo, nel rispondere. Poi ci aveva chiesto se aveva esagerato,
ma era quello che pensava. In un incontro organizzato da Improta al Liceo
classico di Ventimiglia nel ’93, all’uscita del secondo libro (la trascrizione
di domande e risposte si può ora rileggere nel numero speciale di ottobre de
“La Gazzetta di San Biagio”, il suo paese), ugualmente gli veniva chiesto se
davvero dai giovani non c’era nulla da aspettarsi, visti i ritratti negativi
che Biamonti ne dava, e lui rispondeva che non si trattava di un giudizio
inappellabile, ma per ora la realtà era quella. La sua prosa, cristallina anche
nel parlare del dolore (la trasfigurazione della bellezza è comunque all’opera
in una creazione artistica), non lascia intendere che sia così cupo questo
fondo notturno, che viene pienamente fuori, fascinoso e inquietante,
nell’incontro personale. Quando, venendo dalla mia periferia esistenziale, ho
conosciuto Biamonti ho pensato: ecco uno scrittore, “lo” scrittore.