martedì 6 aprile 2021

Francesco Biamonti: Ricordando l'angelo del ponente ligure

 

di

ENZO REGA




 A un anno dalla morte di Francesco Biamonti (1928-2001)pubblicavo questo ricordo nel quotidiano di Avellino "Piazza Libertà", ripreso nel mio volume Derive mediterranee (l'arca e l'arco, 2012). Lo ripropongo ora a venti dalla scomparsa ddello scrittore di San Biagio della Cima.

“Spesso alla sera, durante la degenza,  aveva pensato al vento che precede la notte, dopo che il giorno con un piccolo scarto di luce, più spoglia o più velata, ha annunciato la fine. Le onde all’orizzonte sempre alto si mettevano a scorrere, trascinate dal sole”. Questo è l’incipit dell’ultimo romanzo che ci ha lasciato Francesco Biamonti, lo scrittore ligure scomparso un anno fa, il 17 ottobre. Un inizio già presago della fine, anche se qui si parla della conclusione del giorno. Ma, letto col senno di poi, appare come un congedo nel quale compaiono, in lascito, gli elementi materici fondamentali, essenziali, della sua scrittura: il vento, la notte, la luce, il mare, il sole, la sera. Già con questo breve assaggio è possibile apprezzare la grana della sua voce: la screziatura lirica che non ostacola il dispiegarsi della narrazione. Biamonti sapeva raccontare, far procedere una storia, tenendo alto il livello poetico della prosa adoperata. Qualcuno ha parlato ovviamente di “poème en prose”, per ascrivere questa caratteristica stilistica in una “tabula” dei meriti o dei demeriti, a seconda dei casi e delle preferenze del critico. A ogni modo, per noi che amavamo (che amiamo) questa scrittura, essa era (è) un esempio di come si possa scrivere del nostro mondo – di cui parlava costantemente Biamonti – senza scendere a compromessi con la trivialità della chiacchiera quotidiana e con la sua lingua logorata da un uso maldestro. Ricordo che una volta, venuto a Bergamo, dove io vivevo allora, per la presentazione dell’ultimo suo libro a Villa d’Almè, organizzata con Corrado Benigni, si chiedeva – chiedeva a Giorgio Martini che accompagnava lui e Marco de Carolis in auto – come potesse scrivere dell’“autogrill”, senza usare questo termine.

   In quell’occasione, con Marco, nella primavera del 1998 avevamo appunto presentato il suo libro. Ma, grazie a Marco, avevo conosciuto Biamonti in Liguria, nel paese dove era nato e dove abitava, a San Biagio della Cima, nell’entroterra di Ventimiglia, in quel tratto di costa ligure di Ponente che era stato di Italo Calvino, e che ora vede muoversi Nico Orengo. Orengo, fu lui a proporre a Calvino il primo libro di Biamonti. Di questi contatti rimane traccia nell’epistolario calviniano: “Caro Signor Biamonti – scriveva infatti Calvino da Roma il 21 ottobre 1981 – Nico Orengo mi ha dato il manoscritto del Suo romanzo ‘L’Angelo di Avrigue’. L’ho letto con molto interesse, contento di trovare una personalità di scrittore nuova e inattesa”. E, ancora, rispetto al carattere specifico della sua scrittura: “Il lirismo del linguaggio ha la sua efficacia […]. Quello che Lei vuole fare è una cosa molto difficile: dare al linguaggio la concretezza d’un lessico molto preciso (nelle cose della campagna come nei nomi delle stelle) e insieme un alone di vibrazione lirica”. Anche se poi lo scrittore sanremese avanzava qualche rilievo critico. Ma continuiamo a presentare l’opera di Biamonti con le parole di Calvino, che possono valere pure per le opere a seguire: “Quello che il Suo romanzo è riuscito a rappresentare, credo per la prima volta, è un’immagine della Liguria che comprende insieme la vita agricola dell’entroterra, dura e aspra e povera, e il modello di vita facile della Riviera che ora prende l’aspetto tragico della droga come consumo di massa”. Tre osservazioni a partire da qui. Primo: nelle case editrici, allora (inizio anni Ottanta) c’erano, a prendere decisioni, scrittori del calibro di Calvino che sapevano davvero leggere “i libri degli altri” e scegliere in base a considerazioni di carattere letterario. Secondo: la critica di certi aspetti della vita della costa e comunque dei guasti della “modernità” era tema caro anche allo stesso Calvino (si pensi a “La speculazione edilizia”) e ora lo è per Orengo (vedi ad esempio il suo recente “La curva del Latte”). Terzo: nell’elenco delle parole-chiave della letteratura di Biamonti, fatto in apertura, manca ancora il riferimento agli ulivi (quegli “ulivi incielati”, come li chiama ne “Le parole la notte”: “Che ne sarà un giorno dei miei ulivi con la loro purezza francescana? E dei loro licheni, delle loro muffe? Lavorano notte e giorno, sotto il sole e le stelle per aggiogare la terra al cielo”); e vanno ricordati i terrazzamenti tipici dell’agricoltura ligure, le pietre di una natura che si presenta scabra e spigolosa, i sentieri che si inerpicano nell’interno, e che servivano (servono) anche ai “passeur” per condurre i clandestini oltre la vicina frontiera francese. Anche gli immigrati, arabi, neri, popolano i libri di Biamonti. E bisogna aggiungere un altro punto. Quarto: la lettera di Calvino è dell’81, il primo libro di Biamonti di cui si parla è uscito nel 1983 – e Biamonti era nato nel 1933. Un tardo esordio, dunque, a cinquant’anni, dopo una vita passata a coltivare campi, con parentesi sindacali; ma anche in seguito Biamonti ha pubblicato poco, solo altri tre libri. Tutti frutto di una lunga decantazione e di un lavoro di essenzializzazione. Francesco sembra aver passato il tempo più che a scrivere, a sfrondare, limare, ripulire i suoi testi. Avevo detto, nell’occasione bergamasca, che mi veniva fatto di ricordare quanto Leonardo Sciascia, altro autore mediterraneo, a sud, aveva scritto nella postilla a “Il giorno della civetta”: qui Sciascia si scusava di non aver avuto tempo per rendere più breve (più essenziale) il suo già scarno romanzo. Biamonti questo tempo se l’è preso. Il dispiacere rimane a noi di poter leggere e rileggere i soli quattro libri che alla fine ci sono rimasti. So che stava lavorando a un nuovo romanzo che – mi diceva – voleva differenziare dagli altri, stando, così si esprimeva, più a ridosso delle cose. Non so cosa intendesse. Due giovani ricercatrici genovesi, mi informa Marco de Carolis, stanno esaminando le carte che ha lasciato: vedremo cosa verrà fuori. Per interessamento, fra gli altri, di Francesco Improta, docente napoletano immigrato a Ventimiglia, sta poi nascendo l’associazione degli “Amici di Francesco Biamonti” (presso il Comune, piazza 4 novembre, S. Biagio della Cima – Imperia).

   Tornando a me, che un poco e purtroppo per poco fui suo amico, ho incontrato Biamonti un’altra volta a San Biagio, sempre intorno a qualcosa da mangiare e da bere, il Rossese delle sue terre. Parlare con lui significava fumare il fumo delle sue mille sigarette (di questo si è ammalato). Ecco, di fronte a te, il suo volto rugoso con i capelli immacolati e gli occhi blu (li ricordo blu, azzurri; qualcuno ha scritto che erano del colore dei suoi ulivi) era immerso in una nuvola – nella quale sembrava sperso anche lui a rintracciare il filo d’un pensiero – e da questa nuvola usciva il suono delle sue parole, con una voce roca che ricordava quella di Ungaretti, e bassa, per cui dovevi farti più vicino possibile per non perdere nulla dei suoi riferimenti che andavano dalla letteratura (un amore in particolare, ricambiato, per la Francia dove qualcuno lo considerava “il” più importante scrittore italiano allora vivente) alla filosofia, nella quale, diceva, era solo un dilettante. E la pittura e la musica: Cezanne, Debussy, Messiaen. E inevitabilmente snocciolava il suo pessimismo, da antico moralista (da moralista antico). Nell’incontro di Villa d’Almè, alla domanda di una ragazza che chiedeva cosa sperare nel futuro, era stato particolarmente drastico, e negativo, nel rispondere. Poi ci aveva chiesto se aveva esagerato, ma era quello che pensava. In un incontro organizzato da Improta al Liceo classico di Ventimiglia nel ’93, all’uscita del secondo libro (la trascrizione di domande e risposte si può ora rileggere nel numero speciale di ottobre de “La Gazzetta di San Biagio”, il suo paese), ugualmente gli veniva chiesto se davvero dai giovani non c’era nulla da aspettarsi, visti i ritratti negativi che Biamonti ne dava, e lui rispondeva che non si trattava di un giudizio inappellabile, ma per ora la realtà era quella. La sua prosa, cristallina anche nel parlare del dolore (la trasfigurazione della bellezza è comunque all’opera in una creazione artistica), non lascia intendere che sia così cupo questo fondo notturno, che viene pienamente fuori, fascinoso e inquietante, nell’incontro personale. Quando, venendo dalla mia periferia esistenziale, ho conosciuto Biamonti ho pensato: ecco uno scrittore, “lo” scrittore.