domenica 27 marzo 2022

VENTIMIGLIA OVVERO UN ITINERARIO LETTERARIO. (Ipo)tesi di documentario

 di 

FRANCESCO IMPROTA E VINCENZO TERRACCIANO 

 

 

 

 

                                                                                                                     


                (Ipo)-Tesi di documentario


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                       Perché (Ipo)-Tesi di documentario?

 

 Il cinema documentario - ma anche quello di fiction - non è mai documento tout-court perché la trasposizione in immagini del dato realistico non può che essere una reinvenzione del momento oggettivo della realtà.

   Il cinema è organizzazione di porzioni di realtà a sé stanti che attraverso un uso precipuo e mirato di quelli che sono gli strumenti del linguaggio cinematografico (scelte di inquadrature, scansione ritmica e temporale e soprattutto il montaggio) rispecchiano delle scelte interne, quelle dell’autore e, a priori, quelle del committente.

   Il documentario non è un’indagine scientifica (a meno che non si tratti di un documentario industriale, ma anche in quel caso sarebbe difficile stabilire il contrario a causa del linguaggio attraverso cui si esprime) ma un racconto per immagini sorretto da una sua precisa drammaturgia e da oculate scelte di campo.

   La distinzione quindi tra film a soggetto e film documentario si rivela, ad una riflessione, come arbitraria, artificiale, e puramente verbale, nonché di ragione economica. Ed inoltre tale distinzione non può essere giustificata da un punto di vista logico ed estetico rigoroso. È quindi su tali presupposti, per quanto abbozzati, che si intende impiantare e strutturare un’idea di documentario sulla città di Ventimiglia.

 

  

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 VENTIMIGLIA, OVVERO UN ITINERARIO LETTERARIO

 

   Se in un film a soggetto la drammaturgia è sorretta da una sceneggiatura, cioè una storia nel senso codificato del termine (ed è forse questa la differenza che esiste tra film fiction e film docu­mentario) in un documentario deve esserci qualcosa di altrettanto forte capace di reggere il racconto. In un documentario la possibilità di raccontare viene data da una precisa idea di fondo scritta, elaborata e scalettata in virtù del materiale visivo che agli autori si rivela in mirati sopralluoghi.

 

       Ventimiglia è una cittadina turistica ed in quanto tale offre un incredibile materiale scenografico a chi intende guardarla attraverso la lente di un obiettivo. Ma al tempo stesso si può correre il rischio di mettere insieme solo delle edulcorate immagini da dépliant pubbli­citario. L’idea che qui viene proposta è un excursus letterario attraverso il quale si vuole coniugare il patrimonio paesaggistico con un altro assolutamente poetico che permetta di raccontare un presente non come memoria di un passato morto ma come materia esistente di chi ha sperimentato un passato.

 

       Ventimiglia intende essere raccontata attraverso le immagini di una memoria poetica, pertanto il Virgilio che ci aiuterà a ripercorrere i topoi ventimigliesi sarà un itinerario poetico che potrebbe partire dalla famosa lettera - datata appunto Ventimiglia (19-02-1799) - dello Jaco­po Ortis di Ugo Foscolo per poi reinventare in immagini la magia di un paesaggio ermetico descritto nei versi di Salvatore Quasimodo. Perdersi tra le viuzze di Ventimiglia alta per riscoprirle e reinventarle attraverso gli occhi infantili che scrutano il mondo, in maniera verginale, dei fanciulli nei versi di Camillo Sbarbaro.

  

        L’idea della letterarietà non deve indurre in errore; la letterarietà non vuole essere un tocco di cultura su immagini patinate, né un espediente per eventuali pretese di qualità; sarebbero delle storture di un tipo di documentario che mira a tutti i costi, quando la macchina da presa arranca, a suggestionare lo spettatore.

 

 

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L’idea e le immagini dovranno muoversi in mutuo soccorso, creare quell’osmosi necessaria affinché la città di Ventimiglia pur se vista attraverso il "terzo" occhio non tradisca senso, significato e valenze di una cittadina se vogliamo turistica e di frontiera.

 

 

                               APPUNTI DI UN VIAGGIO

 

           Viaggio di un’anima alla ricerca di sé e di una città alla ricerca della sua memoria. Viaggio attraverso il tempo di un’anima senza città che, attraverso uno spazio anonimo ed insignificante, ha corso il rischio di “mineralizzarsi” (Sbarbaro).

           È un racconto senza storia che utilizzerà in funzione espressiva e narrativa gli elementi dello specifico filmico (ritmo, musica, suoni, colori, luci e rumori) per creare immagini decontestualizzate, metafo­riche e metonimiche, cariche di valenze simboliche. La fenomenologia del viaggio, oggettiva (le cose viste, le figure incontrate) e soggettiva (i sentimenti sofferti, le cose fatte) mirerà a visualizzare le emozioni vissute da poeti e scrittori (Foscolo, Sbarbaro, Quasimodo, Biamonti e Orengo) che hanno fatto di Ventimiglia un topos dell’anima, tappa obbligata delle loro scorribande sentimentali, e al tempo stesso a scuotere l’immaginario individuale e collettivo degli spettatori.                                

 

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                          I PERCORSI DELL’ITINERARIO

 

           Titoli di testa: la macchina da presa dalla marina, alla foce del Roja, risale lungo la vallata a riprendere le montagne sullo sfondo e le pendici delle colline. La voce fuori campo recita testualmente: "... Laggiù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due queste immense montagne. Vi è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte sulle cervici delle Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel cielo, e tutto biancheggia e si confonde: _ da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi." (Ugo Foscolo)

 

1°) Paesaggio marino (Balzi Rossi).

           Le prime immagini saranno rubate agli elementi caratteristici di tale paesaggio. Luci abbacinanti di corone solari, immagini brulle di rocce arroven­tate che fungono da prologo per un itinerario che avrà presente gli elementi fondamentali della vita marina. Tali immagini saranno contrappuntate ora da suoni naturali ora da effetti sonori e musicali che racconteranno anche per sineciosi stilistiche.

      Il terzo occhio (potremmo definirlo “impazzito”, leggi in questo aggettivo un atteggiamento di montaggio) cerca tra gli elementi naturali e non gli ultimi segni di una condizione naturale ed umana.

 

 2°) Paesaggio floreale (Giardini di Hanbury).

      Alla luce e ai suoni dominanti nella sequenza precedente si sostituiscono i colori e gli aromi del paesaggio in questione, non considerati semplici immagini policrome ma elementi portanti di una struttura narrativa (sono previste per queste immagini ricostruzioni sonore).

             "... narciso solitario, tazzetta gradevolmente odorosa, giaggiolo ensiforme, spadacciola a spiga lassa e a fiori distici, concordia macchiata a bruno, bocca di gallina dal labello villoso, gigaro-giaro giallastro.

           E me ne stavo lì in mezzo, seduto in mezzo ai fiori, che ce n'è di tutte le qualità e di tutti i colori. Ma è un attimo che mi godo questo arcobaleno perché mi accorgo che qualcosa è rimasto fuori dal pentagramma. Qualcosa che faccia rumore sopra i fiori, agitando ali, zampe, antenne, addomi e toraci e qualche paio di ocelli: le farfalle. [...] Ora tutto intorno c'è un brusio felice di corolle e foglie, ali e zampe come una tiepida risacca notturna." (Nico Orengo)

         Sorge a questo punto l’esigenza di focalizzare attraverso segnali intermittenti il tema di controllo del nostro racconto cinematografico.

 


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 3°) Paesaggio fluviale (ponte sul Roja)

       L’occhio della m. d. p. evita tutto ciò che sa di oleografico per indugiare sugli elementi di contorno che vivono ai margini della vita e che in un’esistenza deprivata e depauperata, diventano la vita stessa (palmipedi, cespugli, tronchi che strozzano il libero fluire delle acque). La m. d. p. raccoglie inavvertitamente immagini del quotidiano cui fa da sfondo un brusio indistinto.

        I segnali intermittenti chiedono cittadinanza visiva.

 

4°) Marina (Marina S. Giuseppe).

   Particolari condizioni di luce renderanno inusuale l'usuale creando epifanie ed intermittenze del cuore, decodificando la banalità: barche come ossi di seppia sulle spiagge.

 

 5°) Paesaggio arboreo.

        La m.d.p. risale lungo la vallata per indugiare tra le ombre argentee degli ulivi.

         "... Uliveti, carezzati in quell'ora da una brezza triste, casette attraversate dall'alba come da una tremolante agonia, muri che per secoli avevano reso arabile la terra, sbilenchi e carichi d'aria.

[...] Adesso la luce era potente, a blocchi e, più che tremare, sembrava rotolare sull'altopiano. [...] Punte argentee di mare entravano nel cielo quasi in risposta al richiamo degli ulivi." (Francesco Biamonti)

 

 6°) Paesaggio cittadino (Ventimiglia alta).

      «In Ventimiglia vecchia i lampioni accendevano tardi sulle strade, le case respiravano aperte la notte.., sulle soglie le donne aspettavano il sonno». (Camillo Sbarbaro)

    Questi versi di Sbarbaro ci offrono il filo di Arianna per orientarci fra la ragnatela di strade nel borgo antico. Siamo inghiottiti nei budelli trasfigurati da una luce polverosa. La m. d. p. scruta e si muove senza una meta prestabilita. È solamente il ritmo di un respiro ansimante il viatico della nostra ricerca. Una prima tappa verrà effettuata in una taverna dal sapore antico. Verrà ricostruita la scena descritta da Sbarbaro in “Trucioli”: in un angolo della taverna un poeta (?) "siede assorto ad un tavolo, dinanzi ad una bottiglia di vino bianco, color oro"; la musica ancora una volta sarà funzionale al senso delle nostre immagini.

     Piazza S. Michele (Ventimiglia Alta)

      L’ultimo luogo del nostro itinerario a Ventimiglia alta è in piazza S. Michele.


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      Ancora una volta i versi di Sbarbaro ci soccorrono nella narrazione di un’atmosfera trasognata e surreale: "...Un bambino che passava a mano di una donna s’impuntò, smaniando alla luna come verso un giocattolo nuovo...».

 

7°) Paesaggio cartaceo (Biblioteca Aprosiana, Ventimiglia alta).

      Un percorso che si muove tra presente e passato, attraverso la mediazione della memoria, non può tralasciare la Biblioteca Aprosiana che riteniamo giusto inserire nel nostro racconto e come patrimonio storico e per le sue valenze simboliche di una cultura che spesso non riesce ad innervarsi sulla realtà. La nostra indagine visiva, dopo aver spaziato tra le linee geometriche della biblioteca e dopo aver fatto “sentire” la polvere del tempo, si soffermerà “religiosamente” su particolari di codici miniati, indelebile ed insostituibile testimonianza di un passato non del tutto esperito e di un rapporto diverso, immediato, fisico, con il libro. Queste sequenze saranno accompagnate da cori del ‘600 musicati su testi latini.

                                                              

        La m. d. p. ritrova il suo poeta. Esce dalla taverna, barcolla; lo raggiunge e lo ingloba, scende con lui, passa vicino al teatro comunale, si ferma, delle immagini si accavallano, alla struttura fatiscente del teatro attuale si sovrappone quella di una fotografia d’annata... Irrimediabilmente il sogno si dissolve.

 

 8°) Paesaggio aereo.

       La m. d. p. s'impenna verso l'alto e ondeggia sulle ali dei gabbiani che sul far della sera si allontanano a stormi. Suono in presa diretta del loro rauco grido. Voce fuori campo (come in precedenza).

  "... intonacati d'aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace" (Francesco Biamonti)

 

 9°) Paesaggio fluviale

    Alba. Ponte sul Roja. In lontananza scorgiamo il nostro compagno di viaggio (il poeta). Passeggia sul ponte, indugia, guardando ora a destra, ora a sinistra, quindi solleva lo sguardo. In campo lungo Ventimiglia alta. La m. d. p. gli va incontro, lo incrocia e lo supera. Il libro che aveva sotto il braccio è in acqua spaginato.

  

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                                                  Titoli di coda


             (Poesia di Salvatore Quasimodo. "Alla foce del Roja").

 

                                          

                   Un vento grave d'ottoni

                   mortifica il mio canto,

                   e tu soffri a grembo aperto

                   la voce disumana.

 

                  Da me divisa s'autunna

                 ai moti estremi giovinezza

                 e dichina.

 

                La sera è qui, venuta ultima

               uno strazio d'albatri;

               il greto ha tonfi, sulla foce,

              amari, contagio d'acque desolate.

 

              Lievita la mia vita di caduto,

              esilio morituro.

 

  *

                                      

Francesco Improta e Vincenzo Terracciano

    Ventimiglia, primavera 1992


*


Galleria di immagini


Il paesaggio: Ventimiglia e i Giardini Hanbury








 I personaggi



Francesco Biamonti ai Balzi Rossi

Nico Orengo nei Giardini Hanbury
             


Salvatore Quasimodo

Camillo Sbarbaro

  

 

  

 

 

 

 

 

domenica 6 marzo 2022

BIAMONTI E KUBRICK

 

 di

FRANCESCO IMPROTA      

         



Alla base della narrativa di Francesco Biamonti c’è lo sguardo, nel senso che nei suoi romanzi le cose sono colte sempre nella loro visibilità ed i personaggi sono legati gli uni agli altri e agli oggetti circostanti attraverso gli sguardi ed è ciò che fa di lui uno scrittore decisamente cinematografico. Fino a non molto tempo fa ero fermamente convinto che il regista più vicino a Biamonti, spiritualmente e culturalmente, fosse Bresson; entrambi, infatti, cercano di sottrarsi alla rappresentazione attraverso la frammentazione, riducendo, cioè, all’essenziale i contrasti ed affidando alla concisione e all’ellissi la forza d’impatto con il lettore o con lo spettatore. Dopo aver letto, però, il bellissimo saggio di Sandro Bernardi (“Kubrick e il cinema come arte del visibile” Pratiche editrice) e dopo aver io stesso organizzato una rassegna di film di Kubrick ho avvertito la tentazione, rischiosa ma intrigante, di accostare lo scrittore di San Biagio della Cima al regista newyorkese, certo non sul piano dei contenuti, dove le differenze sono vistose e probabilmente incolmabili, ma sul piano del carattere, del comportamento e dello stile. 

 Contemporanei e quasi coetanei (Biamonti era più vecchio di soli 4 mesi) hanno vissuto e testimoniato la crisi di questi ultimi decenni, attraverso opere d’eccezionale bellezza che hanno dato lustro e spessore al cinema e alla letteratura contemporanee. Le analogie sono rintracciabili, innanzitutto, nel modo di vivere: lontani dalla folla entrambi, chiusi in un’aristocratica e severa solitudine, nel tentativo di perseguire con ferocia la loro purezza umana ed artistica: relegato nel suo castello di Sant Adams, lontano da sguardi indiscreti Kubrick; appollaiato sulle colline dell’entroterra intemelio, fra gli ulivi argentati e le profumate mimose, Biamonti. Le uniche sortite erano, per Kubrick (morto nel 1999) le passeggiate in automobile con il fido autista che non doveva mai superare la velocità di quaranta miglia, e per Biamonti quasi fino alla fine, avvenuta l’anno scorso, i vagabondaggi notturni sulla costa, a dispetto della grave malattia che ne aveva intaccato la fibra robusta, in cerca di volti, di situazioni e di esperienze da trasportare nei suoi romanzi. Anche a Francesco non piaceva la velocità, probabilmente perché gli impediva di guardarsi intorno e di assaporare degnamente la vita o di percepire con la necessaria chiarezza la realtà, e quando un giorno, sull’Autostrada dei Fiori al volante della mia autovettura, avevo pigiato il piede sull’acceleratore, Francesco, seduto accanto a me, con un accento tra il severo e il sarcastico, mi disse: “Non sarai mica diventato un futurista?” Entrambi, perfezionisti fino alla mania, sono tornati più volte sulle loro opere correggendo, tagliando, aggiungendo scene, immagini, semplici parole; nel suo ultimo film “Eyes wide shut” Kubrick ha fatto ripetere, ad un attore del calibro di Tom Cruise,  novantasei volte un’azione di una semplicità disarmante (si trattava di chiudere una porta) e Biamonti riscriveva decine di volte la stessa pagina nel tentativo, sempre coronato da successo, di raggiungere una scrittura scarna, prosciugata e pregnante come non mai, una scrittura “liricamente arida” – mi si passi l’ossimoro che è del resto la figura dominante nei film di Kubrick. Il cinema di Kubrick, infatti, non diversamente da quello di Ejzenstejn, di Pasolini e di Godard, poggia sulla forza della contraddizione: i suoi film sono contrassegnati, al tempo stesso, da uno slittamento in avanti, verso il futuro, il nuovo, e da un altrettanto significativo salto all’indietro, al passato, alle origini del cinema nel tentativo, in questo caso, di recuperare le caratteristiche peculiari della fotografia e della pittura,  da cui il cinema discende in linea diretta, con buona pace di coloro che ne hanno fatto “un genere letterario”, dando importanza esclusivamente alla sceneggiatura; si determina, pertanto, nei suoi film una discrasia fra le immagini e il racconto, per cui le immagini spesso sembrano contraddire il discorso che  pure a loro  è affidato; fuoriescono, cioè, dal racconto, acquistando una loro piena autonomia ed in questo caso si può dire, citando Nietzche, che “il particolare oscura l’insieme e cresce a sue spese”. Nasce un contrasto tra la significazione che è racconto e la visione che è percezione, tra ciò che le immagini mostrano e ciò che esse significano. Si assiste ad un impoverimento della significazione, e quindi del racconto, a tutto vantaggio della visibilità, e quindi della percezione, come sostiene acutamente Sandro Bernardi nel suo bellissimo saggio su Kubrick. I film di Kubrick - come quelli di tutti i registi più grandi - “non mostrano immagini per raccontare storie ma raccontano storie per mostrare immagini”; la storia è il mezzo non il fine, non è un caso che tutti i movimenti della m.d.p. (panoramiche, carrelli  a precedere, zoom, carrelli indietro o laterali etc.) tendono a forzare la scrittura cinematografica, svuotando l’enunciato e limitandosi ad istituire e a formalizzare uno spazio ed un tempo, cioè le coordinate fondamentali di qualsiasi forma di espressione e di comunicazione. Sono movimenti oserei dire immobili (ritorna la figura retorica dell’ossimoro) e mirano a creare uno spazio non diegetico ma iconico, non funzionale al racconto ma chiuso, isolato e legato nell’autorappresentazione, come in un quadro o in una fotografia. Gli stessi primi piani non s’inseriscono, integrandosi, in precise sequenze narrative ma vivono da soli metonimicamente, meglio ancora per sineddoche, sono parti che rappresentano il tutto. Per quanto riguarda il tempo va detto che in Kubrick il tempo si allarga a dismisura, si moltiplica, nel senso che nei suoi film si assiste alla coesistenza di passato, presente e futuro e talvolta il tempo si materializza, diventando addirittura visibile, come in “Rapina a mano armata”, dove il tempo ritorna continuamente su se stesso, si contrae e si sfilaccia, fino a diventare il vero protagonista della storia. Anche in Biamonti prevale la percezione sul racconto, non a caso i suoi modelli sono Merleau Ponty e l’ecole du regard, ed il tempo, come  abbiamo visto in Kubrick, si dilata ed acquista molteplici valenze in quanto è filtrato attraverso la coscienza e soprattutto la memoria dell’autore e dei suoi straordinari personaggi, legati alla terra d’origine eppure sempre pronti a viaggiare, incapaci, come sono, di mettere radici perché il mondo frana irrimediabilmente e non offre approdi o ancoraggi possibili; ne consegue che il paesaggio, vero protagonista dei romanzi di Biamonti, pur conservando tutta la sua concretezza, non è la cornice materiale delle vicende raccontate ma è un paesaggio dell’anima, materiato d’angosce, di ossessioni, di labili e confuse speranze. Lo spazio, quindi non diversamente che in Kubrick, è iconico ed autoreferenziale, scarsamente funzionale alla storia, sempre esile e povera di casi, ma carico di valenze simboliche e di suggestioni non comuni. Straordinario mago della luce, come tutti coloro, o quasi, che fanno dello sguardo lo strumento privilegiato di percezione e di conoscenza, con la grazia di uno stile che più che un dono naturale è una severa conquista, Biamonti descrive i cieli bassi della Liguria, il delirio del mare, d’ascendenza montaliana, la luce del giorno che rotola a blocchi sulle rocce  e sulle fasce, i tronchi contorti, piegati/piagati dal vento degli ulivi e il profumo  penetrante delle mimose o della lavanda con l’intensità e la forza rappresentativa di Cezanne o, nell’ultimo romanzo - ambientato quasi tutto di sera - di George de la Tour. Anche il tempo, come abbiamo accennato prima, non è scandito dal trascorrere delle ore e neppure dal battito del cuore, esso è filtrato dalla memoria, da emozioni, in essa depositate, che si contraggono o si dilatano a seconda dei casi, ed infatti, spesso Biamonti privilegia i tempi morti, quelli che favoriscono i soprassalti della memoria e le intermittenze del cuore, eppure talvolta il tempo si materializza e diventa, quindi, visibile nella luce che al tramonto sanguina come una ferita, prima di dileguare dietro la montagna, o nel verso rauco dei gabbiani, che “intonacati d’aria  andavano al mare come ad un letto di pace”.

Entrambi, infine, sono riusciti a frantumare con un pessimismo sempre più raggelante mode, miti ed illusioni, “ le magnifiche sorti e progressive”, preannunciando con largo anticipo la deriva del secolo ed il crepuscolo della civiltà occidentale; si pensi alla visione negativa del mondo e degli uomini che traspare da “ Full metal jacket”, il film per molti versi più emblematico di Kubrick, e al nichilismo di Biamonti, che discende in linea diretta da Montale, con la sola differenza che nel poeta genovese s’intravede un’oltranza o, meglio ancora, la probabilità improbabile del “miracolo” (Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:”, in Biamonti, invece, non c’è nessuna possibilità di salvezza o di riscatto. “Anche il mare –al quale egli aveva affidato le residue speranze di redenzione- non riesce più a purificare i cuori”, come si legge in “Attesa sul mare”. In un’intervista, rilasciata nell’immediata vigilia del nuovo millennio, ad una precisa domanda sul futuro del mondo egli ha testualmente risposto: “Il secolo muore nel disonore e nella vergogna ed il futuro non sarà certo migliore. È tutto un mondo, infatti, edificato sulle rovine e sui delitti”. 

Ringrazio Francesco Improta per avermi concesso di ripubblicare questo pezzo originariamente apparso in      

  http://www.bartolomeodimonaco.it/parliamone