venerdì 1 maggio 2020

Napoli: Quattro Giornate di lotta, e la quinta per dimenticare. Considerazioni a partire dal romanzo di Anita Curci

di
ENZO REGA




   Il romanzo della giovane autrice napoletana Anita Curci, Non mi vendo. Storia di una partigiana del Petraio (apeiron editore, Napoli 2009) è dedicato alle quattro giornate di Napoli, durante le quali una spontanea insurrezione popolare dal 27 al 30 novembre 1943 scacciò dal capoluogo partenopeo il nemico nazifascista. La vicenda è narrata dal punto di vista di una bella e energica popolana, la quale, alla fine di tutto, dice che ora è arrivato il momento di dimenticare. Auspicio comprensibile per chi ha vissuto le sofferenze della guerra e la miseria, miseria che già c'era prima e che non poteva non aumentare con lo sconvolgimento bellico.
   Ma il dimenticare ci porta a quella che potremmo chiamare quinta giornata, cioè al dopoguerra e al tradimento delle speranze e delle aspirazioni di maggiore giustizia sociale che si erano accompagnate ai fermenti politici e alle lotte della resistenza. Il problema che si pone oggi è proprio recuperare quella memoria storica, quello scatto di dignità e d'orgoglio che spinse i napoletani d'allora, donne uomini e ragazzi, a scendere nelle piazze. La storia della Napoli del dopoguerra è la storia di una decadenza all'interno di un tradimento nazionale dei motivi che avevano spinto a imbracciare le armi. Ma con una particolare evidenza a Napoli. Le quattro giornate furono un fatto spontaneo, appunto, dunque più insurrezionale che rivoluzionario: per antonomasia la rivoluzione è un processo preparato, organizzato e dagli effetti permanenti (come nelle rivoluzioni francese o russa). Napoli è famosa nella storia per questi improvvisi scoppi insurrezionali spontanei, ai quali poi non possono seguire che la normalizzazione e la restaurazione. L'unica rivoluzione che ricordiamo, quella giacobina del 1799, sarebbe, a detta di Vincenzo Cuoco, una rivoluzione passiva, una rivoluzione elitaria alla quale il popolo non prese parte e che dunque non poteva che fallire. Anche se non tutti gli storici concordano su tale carattere esclusivamente borghese-aristocratico della effimera repubblica napoletana.
   Ma veniamo alla vicenda del libro. La protagonista è Vincenza, una popolana che abita sulle rampe del Petraio (donna, e donna di un quartiere popolare); per mantenere i fratelli che il padre ubriacone e piccolo delinquente lascia alle sole sue cure, deve accettare umili lavori come quelli domestici che farà in casa di una dama della Napoli bene. Però Vincenza, che ha ereditato dalla madre le aspirazioni all'uguaglianza sociale contro la rassegnazione cui molti soggiacciono, partecipa attivamente alla vita e ai dibattiti di un circolo clandestino antifascista, del quale è anzi una delle vere animatrici, e per questo è guardata con sospetto dagli altri componenti e soprattutto dalle altre donne invidiose della sua avvenenza e della sua energia. In queste sue battaglie ha modo di incontrarsi-scontrarsi con il tenente colonnello Gabriele Fontanarosa che, guarda caso, è figlio della "dama" presso cui Vincenza lavora. Alla preparazione della sommossa si intreccia dunque la vicenda privata che in un crescendo arriva al suo climax: presa dal proprio orgoglio di classe, Vincenza insulta Gabriele, che in realtà comincia già a manifestare forti dubbi sulla propria adesione al fascismo. La scena si conclude con uno schiaffo dato da Gabriele a Vincenza, ma è proprio da qui che si compie la vera svolta del militare che arriverà alla diserzione e aiuterà gli insorti. Nel racconto (racconto lungo forse più che romanzo breve) Vincenza mantiene coerenza e fedeltà rigorosa agli ideali di partenza; il personaggio invece che evolve, e alla cui crescita assistiamo, è Gabriele, del quale Vincenza alla fine si innamorerà e con il quale si legherà in un lieto fine, nonostante il clima della guerra (ma la stessa cacciata dei tedeschi è un happy end: felice conclusione collettiva e personale dunque coincidono).
  È vero che l'amore fra una bella popolana e un sensibile aristocratico può sapere di romanzo alla Delly o alla Liala: ma possiamo anche considerare che un insospettabile come Antonio Gramsci non aveva solo parole negative nei confronti del romanzo popolare e di ciò che chiamava "nazional-popolare". Ma possiamo fare anche un'altra considerazione: il motore dell'evoluzione di Gabriele è appunto Vincenza; potremmo leggere la cosa come metafora di un risveglio sociale, a cui chiamare anche le classi benestanti, che però può e, anzi, deve partire dal popolo. Ciò al di là di quello che poi è successo nella quinta giornata, nella quale certi strati popolari sono andati diventando sempre più plebe e le élites intellettuali e politiche non sono state all'altezza del loro compito.
   La vicenda collettiva e personale si svolge sulla scena di una Napoli popolare, di una città che ha al suo interno ancora la campagna, come leggiamo a p. 56:

    La strada, dal fondo sassoso, era a tratti limitata da terreni abbandonati; i bambini vi andavano a giocare e a raccogliere frutta dagli alberi durante la giornata. Mele annurche, pere mastantuono, arance 'e ciardino, nespole, sorbe e ceveze, non facevano in tempo a maturare poiché i rami ne venivano subito spogliati: la fame era feroce e spesso i frutti erano divorati verdi ed amarognoli.

   E troviamo anche reperti di "cultura materiale" (p. 67):

   Spesso Vincenza caricava l'acqua il venerdì, al tramonto, quando la fontana rimaneva libera. Ma riempire la tinozza di legno tante ore prima, significava trovare la casa allagata al mattino. Le doghe consumate dal tempo, non saldamente unite le une alle altre, lasciavano colare la preziosa acqua, che andava persa. Così si vedeva costretta a riempire solo un catino e poche anfore.
   Da sua madre aveva ereditato l'uso di fare il bagno almeno due volte la settimana, durante la stagione calda, contrariamente a quella che, invece, era 'abitudine delle famiglie povere, soprattutto le numerose: l'impresa poteva diventare titanica.

   Poco dopo (pp. 67-68), il riferimento al gioco dei bambini ci presenta anche delle schiarite in piena guerra, come a dire che la speranza non andava perduta:

   Le donne in attesa alla fontana, di tanto in tanto, cavavano dalle tasche dei loro grigi grembiuli larghi fazzoletti di cotone, che andavano a tamponare il grondante sudore del viso. I bambini si rincorrevano spensierati e venivano a rifugiarsi tra sottane in attesa, per trovare un momento di protezione dalle prepotenze dei più grandicelli. Altri gruppetti, di fianco alla chiesetta, organizzavano il gioco del tappo di sughero. La gara consisteva nel tirare il tappetto contro il muro, e chi si avvicinava al limite stabilito vinceva tutti i sugheri lanciati per la sfida. Questa costituiva per loro una delle competizioni più entusiasmanti, oltre al lancio dello strummolo, poiché consentiva di trascorrere intere giornate senza mai annoiarsi. Possedere un pezzetto di sughero, allora, rappresentava una fortuna. Non se ne trovavano facilmente in giro. Chi ne era sprovvisto e si avvicinava per partecipare alle gare, veniva subito escluso. Per questo motivo, alcuni bambini, stufi di essere emarginati per penuria di tappetti, formarono una nuova squadra dove il gioco veniva disputato con i sassolini. Allora i bambini del Petraio si divisero in due fazioni: la squadra dei sugheri e quella dei sassolini.

   Queste sono senza dubbio tra le parti narrativamente più riuscite del libro,  dove anche il linguaggio risulta più convincente. Per il resto, il racconto segue con capacità la crescita dei personaggi, delineandoli psicologicamente: Vincenza donna volitiva, Gabriele sensibile al punto da cambiare posizione, le altre donne e uomini tra cui qualche volgare e violento corteggiatore di Vincenza (corteggiatore che arriva allo stupro).
   Importante appare la location: le rampe del Petraio. Non si può non pensare a un romanzo del 1950, cioè al tempo della quinta giornata: Scala a San Potito, che l'ormai dimenticato Luigi Incoronato pubblicava addirittura con Mondadori (ora: Pironti, 2002). La stessa fauna umana di Non mi vendo si muove su quelle rampe, a lato del Museo Archeologico, qualcuno vivendo addirittura all'aperto, dormendo sulle scale: una condizione indigena, vissuta dai napoletani, e oggi, mutatis mutandis, toccata ai nuovi poveri, agli immigrati, come vediamo nel Napoli Ferrovia (Rizzoli, 2007) di Ermanno Rea, che dalla Napoli assolutamente napoletana di Incoronato (al quale dedica un continuo ricordo), passa a quella multiculturale dei nostri giorni. Incoronato, nato a Montreal, in Canada, da madre piemontese e padre molisano, dopo studi a Palermo e alla Normale di Pisa, approda nel 1943, in piena guerra, a Napoli, dove si sposa. Fonda con La Capria, Compagnone, Pomilio, Prisco, la rivista «Le ragioni narrative» e collabora tra l'altro con «Paese Sera», per finire poi, deluso da questa che continuiamo a chiamare "quinta giornata", suicida, come il matematico Renato Caccioppoli, suo sodale politico nelle fila comuniste.
   Di quella Napoli intellettuale del dopoguerra parla Anna Maria Ortese nel suo disperatissimo Il mare non bagna Napoli (Einaudi, 1953; ora Adelphi, 1994 e 2008) : oltre che descrivere l'umanità dolente e misera che abita nelle palazzate dei Granili, dà un ritratto di quegli scrittori napoletani che aveva conosciuto giovani e battaglieri e ritrova, tornando a distanza di anni in città, disillusi e inaciditi, come ad esempio Luigi Compagnone invidioso della fortuna letteraria toccata all'amico Domenico Rea a livello nazionale. E così [la Ortese] parla di Napoli (p. 172):

   Allora tornai al mio albergo, e pensando tanti casi e persone passò la notte, e riapparve l'alba del giorno in cui dovevo ripartire. Mi accostai alla finestra di quella casa ch'era alta come una torre, e guardai tutta Napoli: nella immensa luce, delicata come quella di una conchiglia, dalle verdi colline del Vomero e di Capodimonte fino alla punta scura di Posillipo, era un solo sonno, una meraviglia senza coscienza. Guardai anche verso le mura rosse di Monte di Dio, dove il ragazzo sardo, così semplice e freddo, forse a quest'ora ancora pensava, chiuso nella sua stanza piena di polvere, e non so che provassi. Non si sentiva che lo sciacquio tranquillo dell'acqua sugli scogli, non si vedevano che le colline sempre più vive e vittoriose nella luce, e, più giù, le case e i vicoli grigi, i miseri vicoli infetti, dove brillava ancora, sulle immondizie, qualche lume. Ma il giorno diveniva sempre più alto e splendido, e a poco a poco anche quelle ultime luci si spensero.

    Alla descrizione della Ortese sembra fare da controcanto quella che Luigi Compagnone fa di Napoli nella chiusa del suo L'ultimo duello (Rusconi, 1987; p. 117):

   Felice guardava il temporale dietro i vetri della finestra, nella casa, o tana, in cui aveva continuato ad abitare. Non aveva acceso la luce. Dinanzi ai suoi occhi, la mappa della città si delineava, ancora una volta, come un'immensa lacera bandiera abbattuta sulle viscere dei vicoli, sulle piazze, sulle antiche voragini sparse tra cripte, angiporti, fabbriche, case, fino al mare che, laggiù, batteva contro gli scogli.

   E verrebbe fatto di osservare che qui, in Compagnone, la barriera degli scogli impedisca che il mare bagni Napoli, come nel titolo della Ortese. Il riferimento alla Ortese ci riporta a quel mondo femminile protagonista nel romanzo di Anita Curci. A Vincenza, volitiva e energica, che non accetta di vendersi e di svendersi, in una ostinata e coraggiosa coerenza. Ebbene, in un gioco di rimandi, fa venire in mente Francesca Spada (altra delusa-disillusa finita suicida), compagna di Renzo Lapicirrella: due comunisti eretici del dopoguerra, entrambi malvisti dalla dirigenza del partito di quegli anni, stalinista da un lato e pervaso da un meridionalismo che, pur importante, finiva per diventare chiusura localistica nel guscio della specificità napoletana, rispetto all'apertura europea proposta dai componenti del gruppo Gramsci, fra i quali l'avvocato Gerardo Marotta, futuro fondatore dell'Istituto Filosofico. A lei, a Francesca, Ermanno Rea avrebbe anni dopo dedicato un romanzo, Mistero napoletano (Einaudi 1995), che agli anni della quinta giornata appunto riconduce, anche qui, come la Ortese, in occasione di un ritorno a Napoli a distanza di tempo. E, a proposito di Francesca Spada, Rea riporta il ricordo che ne dà proprio Luigi Compagnone che ha iniziato a parlare di odio e amore per la città partenopea e che così prosegue (pp. 195-196):

    Parlo d'odio perché vedo Napoli come una tragedia senza sbocchi, senza speranza. L'odio è indotto esattamente da questa assenza di speranza, di catarsi possibile. Del resto perché credi che si uccise Francesca? Era una donna trascinante. Ricordo con precisione questa sua forza di trascinamento, questa sua tensione interna, questo suo fuoco, questo suo continuo cercare. Fu uccisa dalla solitudine. Napoli è una città dove la solitudine ha qualcosa di corposo, di solido, di materiale. È una moltitudine pesante, non lieve ma greve, non trasparente ma opaca, non silente ma rumorosa. È una solitudine nella ressa, nel rumore, nel disordine. È una solitudine senza poesia, senza nulla di allusivo, di pacato, di raccolto.

   Ma la descrizione di Francesca non ci ricorda proprio la Vincenza di Non mi vendo? Solo che mentre Vincenza è una popolana che agisce trascinata da un'istintiva ideologia  se così si può dire, unendo sentimento animale e razionale consapevolezza  Francesca è una raffinata intellettuale, nella cui visione il gioco di luci e ombre è più forte, ma il cui fare politica risponde ugualmente a una spinta viscerale. Anche lei invidiata, suscitando gelosie per intelligenza e avvenenza: si presenta a una prima del San Carlo, dovendo recensire lo spettacolo sulle pagine dell' «Unità», vestita elegantemente e vistosamente truccata. Una irregolare nel suo mondo, come Vincenza nel proprio.
   Ebbene, dal coro di quegli intellettuali, che pure hanno fatto molto (quel periodo è ricostruito anche in un relativamente recente libro di Generoso Picone: I napoletani, Laterza 2005), viene fuori una disillusione che a livello nazionale veniva condivisa da un Pasolini che negli anni Cinquanta vedeva già cadere le prospettive palingenetiche della Resistenza. Ermanno Rea, per quanto riguarda Napoli, vede proprio in quel periodo il momento decisivo, e finale, della decadenza della città. Con il riciclaggio del fascista Achille Lauro negli ambienti democristiani e monarchici (nel referendum a Napoli aveva vinto la monarchia), che da armatore sposta a Genova la sua attività, la quale avrebbe dovuto naturaliter gravitare sul porto di Napoli: gli americani volevano che il porto partenopeo fosse loro esclusivo spazio di manovra e null'altro doveva interferire; l'armatore che rinnega la sua città di mare non è che una pedina in un gioco più grande di lui. Emblema della chiusura  della città rispetto al mare (per cui davvero il mare non bagna più Napoli) è la palazzata Ottieri tirata su a piazza Mercato proprio da Lauro. Dalla piazza, che viveva di ciò che veniva dal mare, il mare non si vede più.
   La palazzata Ottieri, nella sua bruttezza anche estetica, è sempre lì, ulteriore simbolo di una rassegnazione che, peggio ancora, diventa accettazione e quindi smemoramento. Come per i personaggi di Non mi vendo, che vogliono dimenticare. Ma loro, loro sono giustificati dalle sofferenze patite e dalle quali vogliono uscire. Viene in mente, per quanto riguarda il passaggio rassegnazione/accettazione, il finale di Kaputt (1944) di Curzio Malaparte: dopo aver girato, durante il conflitto, per il nord Europa, tra Finlandia Russia e altro, lo scrittore arriva a Napoli e, in una scena da corte dei miracoli, introduce alle devastazioni della guerra, di cui parlerà più diffusamente nel successivo La pelle (1949). Alla fine di Kaputt, Malaparte entra in un bar napoletano e lo trova invaso dalle mosche e chiede come mai non si faccia niente: a Firenze sono riuscite a debellarle e non ci sono più; e il barista, candido, risponde che anche a Napoli hanno fatto una vera guerra alle mosche. Ebbene, hanno vinto le mosche.

Relazione alla presentazione di Non mi vendo, pubblicato nel periodico napoletano Il Breve nel 2010.



La presentazione del libro:

Sabato 3 ottobre 2009, alle ore 17.30, al PAN (Palazzo delle Arti – Via dei Mille, 60 – Napoli) interessante dibattito sul romanzo storico di Anita Curci “Non mi vendo Storia di una partigiana del Petraio” (Edizioni Apeiron), che narra episodi inediti della prima sollevazione popolare volta a liberare l’Italia dall'occupante nazista.
Interverranno Maria Elefante, Mimmo Liguoro, Enzo Rega, Piero Antonio Toma.
Conduce Ernesto Filoso.

La presente ripubblicazione nel blog è in memoria dell'amico carissimo Ernesto Filoso