sabato 25 aprile 2020

Masullo: Un "giovane" filosofo parla con i ragazzi di oggi


[Ripubblico qui, in ricordo di Aldo Masullo, una breve cronaca del suo incontro con gli studenti del Liceo "Rosmini" di Palma Campania avvenuto nel 2013. Anche lo scorso anno scolastico 2019-2020 il Professore ha incontrato altre classi dello stesso Istituto]

Il prof Aldo Masullo ha incontrato gli studenti del Liceo “Rosmini” al teatro comunale.
Presentato nell'occasione il libro "Piccolo Teatro Filosofico: Dialoghi su anima, verità, giustizia, tempo"

di 
ENZO REGA




Il filosofo Aldo Masullo, nato ad Avellino nel 1923 e vissuto a lungo a Nola, docente emerito di Filosofia morale all’università “Federico II” di Napoli, ha donato la sua colta affabilità agli studenti del Liceo “Rosmini” nell’incontro al Teatro comunale di Palma Campania del 18 febbraio 2013, organizzato dal Liceo insieme a “Xeniart” di Terzigno e con il patrocinio del Comune. Presenti diverse classi, tra cui IV B e C del classico e 5 A del pedagogico che, sotto la guida delle docenti Annalisa Milone, Maria Vittoria Landi e Anna Massa, hanno lavorato ciascuna su un dialogo compreso nel nuovo libro del prof. Masullo e preparato una lettura e addirittura una messa in scena.  Il libro, infatti, presentato nell’occasione dal prof. Aniello Montano, s’intitola Piccolo teatro filosofico. Dialoghi su anima, verità, giustizia, tempo (Mursia 2012) e affronta alcuni dei temi più ardui della filosofia attraverso dialoghi “impossibili”, come quello tra uomo e macchina (dialogo sull’anima), o tra personaggi di epoche diverse: (l’ormai ex) papa Benedetto XVI e il principe Amleto (dialogo sulla verità), Giordano Bruno e un Procuratore dei nostri giorni (dialogo sulla giustizia), per concludere con il serrato scambio di battute tra Eraclito e uno ‘sveglio’ orologiaio (dialogo sul tempo). Come ha notato Montano nella sua densa relazione, è sempre il personaggio del “passato” ad avere la meglio in ciascun dialogo, segno che il presente, per il semplice fatto che arriva cronologicamente per ultimo, non sempre rappresenta il momento più alto. Il libro è chiuso da una Breve riflessione sul dialogo, nella quale Masullo specifica, citando tra le righe Heidegger: “Il dialogo non è la ‘chiacchiera’ quotidiana o la conversazione salottiera, ma neppure la civile pratica del discutere per accordarsi o del reciproco aprirsi tra culture diverse. Il dialogo, nel suo senso originario, è il ‘dialogo filosofico’. Lo è non per il semplice fatto che l’opera del filosofo principe, Platone, è tutta dialoghi, bensì per l’essenziale ragione che dialogo è l’ideale vita della filosofia, l’attivo e mai concluso movimento del pensiero verso la verità”. E il dialogo è in fondo la dimensione della vita stessa, la forma dell’apertura verso l’altro, motivo fondamentale nei temi della “intersoggettività” e della “paticità” (intesa non tanto come “soffrire” quanto piuttosto come “sentire”), che, insieme alla “temporalità”, sono propri della filosofia di Masullo. Con quest’opera dunque il Maestro, avviandosi al compimento dei novant’anni, dialoga con sé e con gli altri, riuscendo a riscaldare e stimolare le giovani menti di oggi.

in "Il Pappagallo" (Palma Campania), Numero 277,  Febbraio 2013.




martedì 21 aprile 2020

Rocco Scotellaro: un poeta al bivio

di
ENZO REGA






a Vita, a Sud di questo Sud

   Il funerale di Rocco Scotellaro, il poeta lucano nato a Tricarico nel 1923 e morto a Portici, vicino a Napoli, il 15 dicembre 1953, divenne l’occasione per una vera manifestazione di popolo: contadini dai paesi circostanti, e personalità e amici dal resto d’Italia. Rocco aveva consumato in trent’anni la sua parabola di poeta e politico: sindaco socialista del suo paese per ben due volte, nel 1946 e nel 1950, era stato il più giovane primo cittadino italiano. Accusato ingiustamente di peculato durante il secondo mandato, che aveva ottenuto dopo la sconfitta del Fronte popolare del 1948, fa l’esperienza, per pochi mesi, del carcere. Questo lo spinge non certo a disertare: si allontana infatti da Tricarico e dalla politica attiva per trasferirsi a Portici e collaborare con Manlio Rossi-Doria all’osservatorio di economia agraria, ritenendo che per migliorare le condizioni di vita dei contadini sia necessario programmare piani per l’agricoltura e la riforma agraria. Nel frattempo ha girato per l’Italia, con un tentativo di collaborazione a Torino con l’Einaudi di Pavese e Vittorini e a Ivrea con Adriano Olivetti. Il rapporto più significativo, oltre quello con Rossi-Doria, sarà con Carlo Levi. In questo modo si definisce una formazione che dal cristianesimo d’impronta francescano-caritatevole si avvicina al socialismo umanitaristico, nel quale “confluivano rivalsa popolare, antica sete di giustizia e redenzione, spinte irrazionali, anarchismo, avversione allo Stato lontano e nemico […]”.[1] Tutta la sua produzione poetica, almeno ciò che è stato reperito, dopo edizioni parziali postume curate da Carlo Levi (in modo affettuoso e partecipe ma arbitrario) e da Franco Vitelli (con maggior rigore filologico), è ora disponibile nel volume Tutte le poesie curato appunto da Vitelli.[2] Per gli scritti in prosa, che attendono ulteriore sistemazione, ricordiamo la sempre postuma edizione laterziana che raccoglie il romanzo autobiografico incompiuto e il parimenti incompiuto lavoro sulle condizioni di vita dei contadini meridionali e la raccolta di racconti (incompleta ma preziosa) Uno si distrae al bivio.[3] Maurizio Cucchi nota come la poesia di Scotellaro tuttora non abbia grande considerazione: è come se il personaggio, con la complessità della propria azione politica e del proprio lavoro culturale, abbia oscurato lo scrittore, al quale in modo frettoloso e insufficiente è stata affibbiata l’etichetta di poeta neorealista, che, per quanto parziale, non è comunque del tutto impropria. Il neorealismo, che in ambiti come quello narrativo e cinematografico, aveva dato risultati “memorabili”, in poesia aveva senza dubbio trovato in Scotellaro il solo interprete o comunque il più rappresentativo.[4]
   Cominciamo col prendere in esame alcune significative poesie “politiche”, anche se ricordiamo come esponenti della cultura di sinistra del tempo (Mario Alicata, Giorgio Napolitano, Giorgio Amendola) dovessero trovare ideologicamente deboli le posizioni di Scotellaro, salvo ravvedersi tardivamente. Fortini, ancora, parlava di protesta e non di rivoluzione. Il fatto è che, nel laboratorio poetico di un autore, motivazioni e modalità diverse possono convivere e mescolarsi. Scotellaro, anche per il suo stesso temperamento, si trovava ad un bivio senza sapersi decidere definitivamente fra una dimensione realistica attenta al documento storico-concreto e una dimensione simbolico-mitica. Ma quello che per taluni può essere un limite, per altri è una ricchezza. D’altro canto, era lo stesso Scotellaro ad ammettere in politica una scarsa preparazione ideologica.[5]
   Senza dubbio, nel novero delle composizioni politiche, la poesia dal cui titolo Carlo Levi ricavò quello per la silloge da lui curata[6] è una delle più significative. È fatto giorno, del 1952, così comincia: “ Ė fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con le faccie e i panni che avevamo”, con l’irruzione sulla scena della poesia, del mondo, della storia dei cafoni lucani e dei contadini del Sud, degli “scalzacani informi”, che con i loro pastrani “macchiano le vie”. Si alzerà allora “un canto nuovo” che in realtà ha l’originarietà del “più antico gemito di un fanciullo” e si imparerà la strada che porta verso un nuovo mondo, o meglio, come scrive Scotellaro, verso “un paese dove bisogna andare / con la felicità della paura / di andare incontro all’amore”. Gli scalzacani finalmente smentiranno la menzogna del potere, “papi e governanti” che, per giustificare se stessi, hanno negato sentimento e parola al popolo. La “leggenda perduta” sarà recuperata e “la notte non sarà più scura e silenziosa”.[7]  L’eventuale ingenuità del dettato non sembra togliere nulla – anzi nella sua scabra essenzialità piuttosto aggiunge – alla resa di un manifesto che si presenta con l’icasticità del Quarto stato di un Pellizza da Volpedo. Del gennaio 1953 è l’appello Ai giovani comunisti, nel quale da un lato il poeta ricorda l’accusa che loro viene fatta di essere diventati, dove sono andati al potere, negatori della libertà, dall’altro afferma, rivestendo i versi della coloritura pacifista francescana della sua formazione: “Io sono con voi, con i giovani comunisti, / che mi promettono, come io prometto, che mai / ci sarà una trincea e un mirino / puntato sul petto di mio cugino americano”. Pur ponendosi al di fuori della logica della guerra fredda, Scotellaro fa indubbiamente una scelta di campo che lo porta – qui sì ingenuamente – a esaltare lo Stalin che dal padre calzolaio (come quello di Rocco) aveva imparato l’umile arte di “servire l’uomo”: “Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo / e il pane e le scarpe e le case e le macchine / può dire chi era Stalin e la ragione del mondo”,[8] evocando qui il Weltgeist di quell’Hegel la cui filosofia della storia faceva parte dell’armamentario marxista.
   Pur proiettando la questione politica in una dimensione più generale, Scotellaro parte comunque strettamente dalla sua terra del Sud e dalla propria esperienza. Fondamentali sono nella sua poesia il padre e il paese, in un’identificazione che ritroviamo in Alfonso Gatto, poeta “picaro fra Sud e Nord” (D’Episcopo). “Il paesaggio lucano – è stato scritto – e non solo quello dell’infanzia, è lo sfondo costante delle vicende vissute e narrate da Scotellaro, e spesso diventa protagonista, riproducendo emozioni e sentimenti dello scrittore”.[9]  La terra lucana con i monti scabri, le pianure gialle e nude, i paesi “in frantumi”, lontani fra di loro. Il paese è sempre un “buco”, un “bugigattolo”, una “gabbia”, inospitale, severo. Questo il paesaggio dei padri, duro ma anche rassicurante, verso il quale Scotellaro prova un sentimento di attrazione e repulsione, lo stesso rapporto che lo lega appunto al padre. Lo  stesso rapporto di Leopardi con Recanati.[10] In più, ed è essenziale, quello di Scotellaro con i suoi luoghi è un legame “antropologico”, che si sostanzia attraverso le stratificazioni storiche e le reminiscenze letterarie: si parla della Magna Grecia, della tomba osco-sabella, degli “avi latini”.[11] Senza dubbio emblematico è il testo intitolato Appunti per una litania del 1948:[12] in questa litania per il Sud si esprime l’ancestralità di un legame che resiste nonostante tutte le chiusure di una società arcaica che il giovane intellettuale di respiro europeo non tollera: “Sud è il mio amore, sono gli aratori, / nell’ombra delle quercie o sulle aie, dormono legati alle cavezze / delle cavalle baie. / Hanno la faccia bruciata  / una crosta di pane”. E dopo aver accennato a donne con i braccio figli in attesa di un “uomo che può non ritornare” (l’emigrante inghiottito definitivamente dalla terra straniera) osserva: “Perciò nelle feste grandi / facciamo le colonne dietro ai santi, preghiamo per l’acqua e per il sole”, con una sovrapposizione di religiosità cristiana e magia pagana che possono ricordare le considerazioni di un Ernesto de Martino che, parlando di un piano metastorico mitico-rituale, riconduce il bisogno di superstizione alle condizioni di vita precaria e piena di incertezze per il futuro delle genti del Sud. E pure così calato nella descrizione delle pratiche magiche della Lucania, l’etnologo napoletano, come Scotellaro, non vi rimane invischiato ma auspica un sollevamento da tale condizione di abbandono fatalistico, che trova solo nell’intervento magico eccezionale la soluzione ai propri mali, in nome di un legame più stretto con il razionalismo europeo che ridia all’uomo gli strumenti per diventare artefice del proprio destino. Scrive infatti de Martino: “Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile  abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi un destino più alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato”.[13] Ciò non impedisce, nella considerazione complessiva dell’uomo, di considerare tuttavia la permanenza costitutiva del magico. La posizione di un Edgar Morin che, avviandosi verso la teoria ella complessità, e abbandonando il marxismo di stampo positivistico-stalinista, riconsidera quella dimensione magica nella quale in fondo rientrava lo stesso culto della personalità del dittatore.
   Considerazioni che possono dar conto della posizione di Scotellaro che pur scrivendo ancora, in quella stessa poesia, “Sud è la canzone dei primordi, / si muovono le dita / sulla rete dei ricordi. // E sud è mio nonno / mio padre e mia madre”, dal paese e dalla campagna parte alla volta della città e del Nord. Ma mentre l’etnologo, da scienziato, ha una posizione più netta, il poeta invece rimane perennemente al bivio, fra mondo contadino e modernizzazione, riscatto e rassegnazione. Neanche la città sarà la soluzione e, anzi, il dissidio campagna/città sarà altro topos fondamentale, come in Pavese. Nel 1947, a Bari Scotellaro scrive La città mi uccide: dopo averne colto soprattutto il carattere mercantile-mercenario (“Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi / sulle immobili merci delle vetrine”; “sentite furie: alberghi e panifici / e padroni che muovete questa ruota / orrenda che ci stride sulle carni, / ditte, navigatori, capitani sentite: / eccovela la testa del mercenario / accalappiata nel vostro frustone”), conclude rivendicando la propria fondamentale estraneità: “Bari, Napoli, Roma, Milano / i fiori,  gli uccelli, la donna / qui si comprano / e io cammino con la mano al cuore / perché a forza potrebbero rubarlo”.[14] E poi Passaggio in città del 1950:[15] “Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, ho perduto la mia libertà”. Se da un lato, con tutte le asprezze, il mondo contadino resta il polo positivo (ossimorico: schiavitù/libertà), dall’altro la poesia di Scotellaro si concede a un’irrefrenabile tensione lirica, nel doppio significato che alla parola si può dare: come canto dell’io e come modulazione del canto stesso, che si distingue dalle poesie-racconto più o meno pavesiane. Per non parlare poi di altri toni ermetici o crepuscolari, che danno ragione all’assunto di Cucchi per il quale quella meramente “neorealistica” è cifra riduttiva. È questa, nel senso ampio del termine, una poesia esistenziale (quale cifra più kirkegaardiana della scelta, del dubbio, dell’angoscia?), nella quale, nel rapporto con la terra, con la gente, con la società, ne va di tutto l’essere del poeta. Il quale da un lato vuole offrire un documento realistico del suo mondo, dall’altro indaga se stesso anche con gli strumenti evanescenti del simbolo: “Oh, non fossi mai nato / se mi tocca la morte… / Sulla polvere raggranellata / gioca l’ultimo soffio / e i cani riprendono la loro canzone / sguaiata della notte”.[16] E qui sentiamo la solitudine esistenziale dell’uomo che, nella fattispecie, possiamo leggere anche come l’isolamento sociale e politico dell’intellettuale senza-patria che dalla patria si allontana e ad essa torna, almeno con la memoria. Questo suggerisce l’inizio de L’uva puttanella, con il ritiro dalla collettività del protagonista, che, tornato alla vigna di famiglia (quella vigna che per Pavese nasconde un dio e per Scotellaro dunque Lari e Penati) varcando un bivio, racconta al padre ormai assente storie della propria vita annullandosi nella memoria delle proprie origini:[17] “Ritornai al bivio e per le case popolari, mi diressi alla vigna di famiglia, che si stende come un panno appeso, sui valloni che vanno verso il fiume. […] abbandonavo così un mondo di passioni e inimicizie che non mi convenivano. Molti […] volevano per il mio bene che spendessi altrove il cervello e il cuore, mentre qui, servo degl’ignoranti, dei rivoltosi, degli scontenti, mi sciupavo i nervi e le inestimabili energie”.[18]
   L’attualità di Scotellaro sta, al di là di mode, oltre che nella figura dell’intellettuale che sta gramscianamente con gli oppressi, nella sua poesia, e nel lavoro sul linguaggio e sulla lingua lucana, perché è giusto che al poeta si guardi: “L’importanza storica dell’operazione condotta da Scotellaro sta tutta nello sforzo immane di creare un nuovo linguaggio senza che potesse giovarsi di precedenti in termini o affini: l’incertezza dell’esito, che si palesa nella discontinuità del processo, costituisce essa stessa motivo d’attrazione e coinvolgimento, come se il lettore rivivesse in proprio l’alternarsi dei successi e delle cadute”.[19] Come se a quel bivio il lettore venisse posto.

  
 in “Gradiva”, International Journal of Italian Poetry, Number 31-32, Spring and Fall 2007, The State University of New York at Stony Brook, pp. 64-70.







[1] Angela Rita De Canio, Rocco Scotellaro. “È fatto giorno”: dall’edizione di Levi a quella di Vitelli, Calice Editori, Rionero in Vulture (Potenza) 2003, p. 23.
[2] Cfr. Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di Franco Vitelli, con introduzione di Maurizio Cucchi, “Oscar” Mondadori, Milano 2004.
[3] Cfr. rispettivamente Rocco Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, introduzione di Nicola Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari 2002  (le prime edizioni distinte dei due testi rispettivamente nel 1955 a cura di Carlo Levi e  nel 1954 a cura di Manlio Rossi-Doria); Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, prefazione di Carlo Levi, Basilicata Editrice, Roma-Matera 1974. 
[4] Cfr. Maurizio Cucchi, Introduzione, in Rocco Scotellaro, Tutte le poesie cit., p. V.
[5] Cfr. Rocco Scotellaro, Lettere a Tommaso Pedio, Osanna, Venosa (Potenza) 1986, p. 58: “Io non ho una cultura comunista. È grave ma non la potevo avere”.
[6] Rocco Scotellaro, È fatto giorno, “Lo specchio” Mondadori, Milano 1954.
[7] È fatto giorno, in Tutte le poesie cit., pp. 278-279.
[8] Ai giovani comunisti e L’uomo, in ibid., rispettivamente pp. 282-284 e p. 285.
[9] Laura Paola Sarti, Invito alla lettura di Scotellaro, Mursia, Milano 1992.
[10] Però con qualche differenza fondamentale: “di Recanati Leopardi amava lo splendido isolamento, ma ne rifiutava la rusticità: viceversa, Scotellaro è tutto calato nella storia e nella tradizione contadina del suo paese, di cui però non sopporta la limitatezza” (Laura Parola Sarti cit., p 111).
[11] Cfr. rispettivamente La tomba della stirpe e Terronia, in Tutte le poesie cit., p. 241.
[12] Ibid., pp. 241-242. Dal cuore stesso di questa realtà parla dunque Scotellaro, “questo uomo straordinario che ha interpretato dall’interno un mondo incominciando una storia autentica dei sentimenti e delle lotte di quei contadini che dopo il 1945 vollero tentare esperimenti di autonomia e di crescita politica e culturale”, come scrive Nicola Tranfaglia (Introduzione. L’eredità di Rocco Scotellaro) nell’aprire il volume che raccoglie L’uva puttanella. Contadini del Sud riedito nel 2001 da Laterza.   
[13] Cfr. Ernesto de Martino, Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 2001, p. 184. Cfr. anche in Rocco Scotellaro, Contadini del Sud cit., p. 196 ciò che uno degli intervistati dice sovrapponendo pratiche magiche e religiose in relazione alla benedizione dei campi.
[14] La città mi uccide, in Tutte le poesie cit., pp. 79-80.
[15] Ibid., p.112
[16] Oh non fossi mai nato! (1947), in ibid., p. 208. L’allontanamento dal “concreto”, in relazione alla morte, e al senso panico del tempo, come portato di un atteggiamento letterario decadente, viene individuato da Giuseppe Amoroso (Rocco Scotellaro, in Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, VII, Marzorati, Settimo Milanese 1988, p. 442) in versi come “Passeggiano i cieli sulla terra / e le nostre curve ombre / una nube lontano ci trascina. / Allora la morte è vicina…” (Campagna, 1948, in Tutte le poesie, p. 10). È chiaro che questi esiti sono propri di una prima fase della ricerca poetica scotellariana. 
[17] Cfr. Laura Parola Sarti cit., p. 76.
[18] Rocco Scotellaro, L’uva puttanella cit. p. 3.
[19] Franco Vitelli, Postfazione a Rocco Scotellaro, Tutte le poesie cit., p.344.

sabato 11 aprile 2020

Cleto, il paese dell’ancella di Enea


In Calabria uno dei borghi caratteristici del Sud

Testo e foto di 
ENZO REGA





Sali su per le pendici del Monte Sant’Angelo, in un paese adagiato sulla roccia, e torni indietro nel tempo. Sono quei paesi che puoi trovare in Calabria, in Irpinia, in Abruzzo. O in Umbria e in Toscana. Ma ci fermiamo piuttosto al Mezzogiorno, perché qui ci viene incontro una certo tipo di petrosità dell’abitato che non troveremmo spostandoci più a Nord (o che sarebbe diversa). Qui siamo a Cleto, in provincia di Cosenza, fra i fiumi Torbido e Savuto, a poca distanza da Amantea. Infatti, lasciate le spiagge di Amantea (anche qui un borgo antico, forse più famoso), di Campora San Giovanni e Falerna, ci si allontana un tre miglia dal mare, salendo lungo la valle del Torbido: la strada si inerpica con lente curve fra ulivi, viti e querce. Superata la frazione di Marina di Savuto, si arriva all’abitato di Cleto, quello originario, ora in gran parte disabitato. Arrivati nella piazzetta che si apre come una terrazza, si continua a salire per un borgo che ha contato anche, se non ricordo male,  3000-4000 abitanti e che, avendone ora solo alcune centinaia, sembra un paese fantasma, ma non  abbandonato. Le strade e le abitazioni sono state restaurate, con attenzione per l’arredo urbano. Gli abitanti sono emigrati in giro per il mondo, e conservano qui le loro case, per tornarci magari poche volte. Qualcuno, qualche famiglia lombarda, sta comprando e riattando piccole abitazioni. Il luogo, specialmente d’estate, sotto il sole del primo pomeriggio, pare incantato. Ma deve esserlo pure d’inverno sotto la neve. Anche se l’altitudine non è elevata: a partire da 240 metri sul livello del mare. Lo si potrebbe elevare a “buen retiro”, o immaginare ripopolato di botteghe artigiane e di laboratori di artisti, come S. Paul de Vance, in Provenza (di lì era passato Picasso: si cerca allora il Picasso di Cleto). I vecchi centri agricoli o scompaiono o si riconvertono a un turismo “compatibile”, come si direbbe oggi. E un borgo come questo potrebbe farlo. Giocando sulla sua fondazione leggendaria. Un’ipotesi mitologica vorrebbe sia stato fondato da Cleta, un’ancella di Enea in fuga da Troia, che si sarebbe fermata qui, mentre Enea risaliva verso il Lazio. La mitica Cleta sarebbe ancora, più precisamente, la nutrice o la fantesca di Pentesilea, regina delle Amazzoni al tempo della guerra di Troia. Una fondazione al femminile, dunque, per questo paese, che, quando ha recuperato l’antico nome greco nel 1863, lo ha però volto al maschile. Dall’alto medioevo il paese era chiamato Pietramala, dal nome di una illustre famiglia (lo studioso locale Ugo Russo ha segnalato a docenti dell’Università di Perugia la presenza di tombe risalenti al 1000 a.C.). Adesso, sulla cima del borgo restano i ruderi di un castello a pianta quadrata, d’origine normanna, risalente al XIII secolo. Un altro castello, meglio conservato, sorge nella frazione Savuto, che lega il suo nome al vino locale, appunto il Savuto, già conosciuto dai romani come “vinum sanatum”. Oltre al vino, si produce olio. Nel territorio del comune vi sono sei frantoi e diverse aziende agricole. Oggi, gli amministratori comunali tentano il recupero e il rilancio del paese, anche vantandone le “glorie” locali. Il sindaco di Ottawa, in Canada, Bob Chiarello, è originario di Cleto. Può darsi che dal mio viaggio dell’anno scorso a oggi sia stato realizzato il gemellaggio con la città canadese. Me ne parlava il giovane vicesindaco (non so se recentemente ci siano state elezioni e le cose siano cambiate, ma mantengo il ricordo delle sensazioni e delle informazioni di allora), Stefano Orofino, Ds e laureato in filosofia con una tesi su Theodor W. Adorno. Faceva una strana impressione parlare, nella piazzetta-terrazza del paesino calabro, di filosofia tedesca: ma questo dà un’idea della  dinamicità delle sue genti, che sanno unire al recupero del passato l’apertura alle correnti principali della cultura del nostro tempo (anche se Adorno è oggi, per taluni, anche lui piuttosto demodé). Mario Medaglia, un altro dei giovani impegnati di questo borgo fuori del tempo e proteso verso un nuovo futuro, mi accompagnava in giro per la Valle, parlandomi dell’appassionato impegno politico e delle lotte locali. E anche mi parlava dei nomi della cultura cletese odierna. Di Francesco Volpe, ad esempio, che si è occupato della storia della Calabria e del pensiero politico meridionale. O del poeta, in lingua italiana, Arnaldo Filice. Un paesino che oggi conta meno di 1500 abitanti (comprese le frazioni) svela così al viaggiatore un microcosmo che vale la pena di essere conosciuto, anche per una vacanza in qualche modo alternativa. Da qui, godendosi un fresco maggiore anche in piena estate (il paese ha una collocazione tale che il clima è mite sia d’estate che d’inverno), in dieci-quindici minuti si scende al mare, alla cui confusione e congestione ci si può sottrarre risalendosene, quando si vuole, nel verde della valle. E andare via significa poi abbandonare un luogo della memoria.  


 Cleto, il paese dell’ancella di Enea. In Calabria uno dei borghi caratteristici del Sud, “Piazza Libertà”, Avellino, anno II, n. 221, giovedì 22 agosto 2002, p. 8.

domenica 5 aprile 2020

Angelo Massa - Davide Auricchio, Le ville romane di Terzigno


di 
ENZO REGA







“Questa terra di sassi neri e sabbia / Bruciata dalla ruggine, / Queste foglie innevate di sangue, / Su filari accerchiati, / Degradano nel giallo di ginestre / Leggere, / Nei lapilli spugnosi, nei suoi fianchi, / È la mia terra e parla: / Scarnificate facce, storie antiche; / Budelli disegnati come strade / Pendii slavati lungo le colate / Di fango…”. Sono versi che Salvatore Violante dedica alla sua terra vesuviana ripresi in apertura del prezioso volumetto Le Ville romane di Terzigno. Tesori e bellezze (Il Quaderno edizioni, Boscoreale 2019) a cura dell’architetto Angelo Massa e del critico storico d’arte Davide Auricchio. La terra parla qui attraverso altre pietre: i  reperti archeologici della Cava Ranieri, a Terzigno, scoperti nel 1981. Gli autori compiono “un viaggio a ritroso nel tempo” descrivendo le ville come si presentano oggi e come dovevano essere in pieno splendore, prima che l’eruzione del 79, quella di Pompei, le seppellisse nello stesso tempo conservandole. Ciò con un linguaggio sì tecnico ma anche accattivante, che sa parlare al lettore profano ma attento riportando alla luce, con le parole – e il ricco apparato iconografico – non solo le strutture architettoniche ma la vita che fu. Le ville di Terzigno si collocano nell’Ager pompeianus, un territorio centrale per la produzione di beni primari, caratterizzato da un clima mite, da un suolo fertile, ricco anche di fonti termali e sotto l’influenza della raffinata cultura greca che Napoli emanava: “Elementi, questi, che rendevano l’intero territorio orbitante intorno al Vesuvio, luogo ideale anche per le ville d’ozio, luoghi destinati alla speculazione filosofica e intellettuale” (p. 125). Una raffinatezza che si risente anche nelle ville di Terzigno: tre quelle riesumate nella Cava Ranieri, insieme addirittura ai solchi di coltivazione ancora visibili. Si tratta di ville rustiche dedite alla coltivazione dell’uva per produrre vino, ma gli insediamenti presentano accanto alla fattoria vera e propria (pars rustica) anche costruzioni per abitazione (pars urbana) con pareti affrescate (alcune megalografie che ricordano Villa dei Misteri), mosaici, vasellame e monili. Il racconto degli autori invita il lettore a visitare questi luoghi le cui pietre, sulla scorta del libro, potrà ricomporre in Storia viva.


Enzo Rega


pubblicato in "Il Pappagallo", gennaio 2020
"Le ville romane di Terzigno. Un viaggio a ritroso nel tempo di Massa e Auricchio"




dagli affreschi di una delle ville