lunedì 27 agosto 2018

Tutti webeti e haters nella “prigione” di Facebook? Da Montanino e Santella un vademecum per un “uso critico” della Rete

di
ENZO REGA



Non spazio di condivisione, Facebook, ma sempre più luogo di conflitto. Gli haters, gli “odiatori”, sono instancabilmente all’opera: immigrazione, politica, vaccini, opinioni varie. Il titolo del libro di Luigi Montanino e Pasquale Gerardo Santella, 'Sopravvivere a Facebook" (Andrea Pacilli Editore, Manfredonia 2017), sembra tdunque assumere un duplice significato: “sopravvivere” nel senso di conservare una vita autonoma al di fuori dei social, ma anche nel senso di superare “incolumi” lo scontro mediatico. Il libro fornisce strumenti, anche e soprattutto ai più giovani, per un’analisi critica del social più invadente, e lo fa accettando, almeno in parte, il suo linguaggio: agili paragrafetti che inizialmente prendono spunto dalle esperienze personali, per poi affidarsi alla guida di studiosi. Allora: pollice verso oppure no per Facebook? Le “testimonianze” dei due autori sembrano prendere posizione l’una nel campo di quelli che Umberto Eco chiama “integrati” e l’altra tra gli “apocalittici”: più possibilista Santella che ricorda come Facebook gli permetta di ritrovare vecchi amici o di condividere informazioni su incontri culturali; più critico Montanino che, pur avendo riconosciuto inizialmente l’utilità del social, si è poi ricreduto vedendo l’ignoranza e la volgarità che si riversano in queste pagine, dove da un lato conta l’apparire, dall’altro però anche il nascondimento dietro identità fittizie. Vediamo così già aprirsi il ventaglio dei pregi e dei difetti di questo potente strumento mass-mediatico. Allora, ecco le “bufale digitali”, o fake news, che sempre più contendono lo spazio al sincero bisogno di informare e informarsi. Nel mainstream, nel flusso incessante che scorre sotto i nostri occhi, è difficile orientarsi tra “verità” e “post-verità”.  Internet però offrirebbe la possibilità di un controllo ulteriore per stabilire quale versione sia attendibile. Facebook è diventata invece una “casa ideale”, una “prigione” al cui interno rinchiudersi come “chattatori compulsivi” che, pur fisicamente in compagnia, si isolano con occhi e dita incollati al proprio smartphone. Ormai è il “solito posto” nel quale incontrarsi: un luogo virtuale, un “nonluogo” che sostituisce la piazza di una volta; invece che lì o al bar,  è su Facebook che ci si dà appuntamento. Una vera e propria dipendenza, che può diventare patologica: ben 6 giovani su 10 considerano Internet irrinunciabile e 1 su 4 si sente solo senza gli amici virtuali; una mutazione non solo antropologica, ma anche biologica e neurofisiologica come sostiene Derrick de Kerckhove. Internet ci rende stupidi?, si  chiede Nicholas Carr, fin dal titolo del suo libro pubblicato in Italia nel 2011: siamo tutti webeti, per usare un neologismo coniato dal giornalista Enrico Mentana?  Bombardati dal flusso di informazioni, la nostra attenzione diventa discontinua e i discorsi frammentari, spesso più affermazioni disarticolate, rilanciate sull’onda immediata dell’emotività e dei pregiudizi personali, che vere argomentazioni: il trionfo di quella che Platone chiamava doxa, cioè opinione, rispetto all’epistème, ovvero conoscenza. E anche la scrittura va a farsi benedire: strafalcioni ortografici e sintattico-grammaticali talvolta esibiti anche come genuinità rispetto alla presunzione dei “dotti”, attaccati spesso come rappresentanti di un ordine superiore che vuole sopraffare la gente normale. Anziché fare sempre selfie di se stessi, in una sorta di “narcisismo di massa” (selfie è anche l’esibizione ostentata del proprio “Io” nell’affermare sempre e solo ciò che già si pensa) bisognerebbe riallacciare un vero “dia-logo”. O, come recita l’ultimo punto delle “Regole contro l’odio in Rete” rilanciate dagli autori: “a volte la scelta migliore è tacere”. O tornare al libro, un libro come questo, per una calma riflessione offline sui comportamenti online. E tornare più avveduti a “navigare”.

Pubblicato originariamente in "Il Pappagallo", Palma Campania 2018

venerdì 24 agosto 2018

Intelligenza. Non c'è più l'effetto Flynn? Progressivamente in diminuzione il Q.I.

di
ENZO REGA



Stiamo diventando meno intelligenti! È finito l’effetto Flynn? Lo studioso statunitense James R. Flynn aveva verificato che il Q.I, ovvero il Quoziente Intellettivo, era aumentato di 13 punti negli Stati Uniti tra il 1938 e il 1984 (3 punti per decennio). Questo aumento, con un’incidenza variabile, aveva riguardato diversi Paesi. Ad aumentare era soprattutto l’“intelligenza fluida”, quella che serve a risolvere nuovi problemi, rispetto all’“intelligenza cristallizzata”, quella già sedimentata. Quali le cause ipotizzate (solo ipotizzate perché non era possibile un riscontro assolutamente oggettivo)? Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e dell’alimentazione, la maggiore scolarizzazione e le migliori condizioni generali di vita.
Nuovi studi dimostrano invece che il trend si è invertito, perdendo 7 punti in media dal 1970 al 2009. È il risultato ottenuto su 730.000 test da Bernt Bratsk ERG e Ole Rogeberg del Centro Ragnar Frisch in Norvegia. E  le cause ipotizzate potrebbero essere, tra le altre, la tendenza dei bambini di oggi a leggere poco e passare invece molto tempo con i videogiochi, oltre le mutate condizioni di vita e i diversi sistemi educativi. Questi sono i dati in Norvegia. Ma altri studi hanno confermato anche altrove questo andamento. In Gran Bretagna un’indagine recente ha permesso di rilevare che i QI sono diminuiti tra i 2,5 e i 4,3 punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Uno studio del 2007 di Thomas W. Teasdale e  David R. Owen aveva invece mostrato che questa tendenza regressiva non era in atto nei Paesi dove il Q.I. è più basso.
Sono dati contraddittori, perché i nuovi studi datano la decrescita anche in anni concomitanti con l’espansione rilevata da Flynn. A ogni modo, più ci si avvicina ai nostri giorni e maggiore si avverte il calo: come se le nuove generazioni non fossero più stimolate ad acuire l’intelligenza che si sviluppa maggiormente in periodi di crescita. Ma ci può essere anche un’ipotesi metodologica. I test finora predisposti non sarebbero più adeguati a valutare eventuali trasformazioni dell’intelligenza. Derrick de Kerckhove, allievo di Marshall McLuhan, ha parlato di mutazioni neurofisiologiche prodotte dall’uso di computer e internet. Una vera mutazione biologica oltre che antropologica.
Per concludere, riportiamo un dato di uno studio Usa: presso le popolazioni in cui si consuma più pesce il Q.I. è maggiore. Avevano ragione le nostre madri: “mangia pesce che contiene fosforo!”.

Pubblicato originariamente in "Il Pappagallo", Palma Campania, luglio 2018.