domenica 18 luglio 2021

BARTOLO CATTAFI: LA POESIA COME “PROMEMORIA” DEL MONDO?

 DI

ENZO REGA




 

 

                                                                           1.

 

   Per Giorgio Caproni, che recensisce una raccolta cronologicamente (e non solo cronologicamente) centrale del poeta messinese, tutta l’opera di Bartolo Cattafi aveva il sapore e il colore di un “giornale di bordo”, piena com’è di vocaboli geografici e nautici che però, precisa il poeta-critico toscano, appaiono ben presto magici: il “viaggio-mito” di Cattafi, dunque, non si compie per il solo piacere di viaggiare e di annotare, ma esso, come i vocaboli usati, si fa plastica traslazione “d’un altro viaggio invisibile compiuto molto più addentro del puro visibile […]”.[1] Ma Caproni, già a proposito di una precedente raccolta cumulativa di cinque anni prima, citando Greenwich (Partenza da Greenwich è il titolo di un libro precedente recuperato ora come sezione) sottolineava la “capacità di riprendere il paesaggio ‘visto’ con tal precisione di vocaboli e immagini, da restituircelo non come memoria, ma proprio come espressione viva del tremore esistenziale del poeta e, di conseguenza, nostro […]”.[2] Se non si tratta di memoria, ma di un diario di viaggio che resoconta la vita laddove essa si svolge, allora trova giustificazione, ci pare, usare per la poesia di Cattafi il termine promemoria, cioè come di qualcosa che si raccolga oggi a futura memoria, di una memoria che forse, come si vedrà, finirà per cercare però anche la propria auto-dissoluzione.

   Se assumiamo in tutta la sua portata tale caratterizzazione della poesia di Cattafi proposta da Caproni, tutta la poesia del siciliano appare come un viaggio anche laddove, come tema, esso vada affievolendosi per riemergere in tutta la sua portata proprio alla fine: come se la meta finale,  la morte che si profila, il porto dell’ultimo approdo richiamasse in causa il cammino fino allora compiuto.

 

 

2.

 

   Rovesciando la prospettiva cronologica, vogliamo allora sottolineare la portata del tema proprio nelle ultime raccolte. Qui, nel pieno della malattia che lo stroncherà, anche la tanatologia cattafiana, pur nella maggior astrazione e rarefazione dell’ultima sua modalità poetica che la critica ha variamente sottolineate, acquista una pregnanza biologica concreta e non più meramente teorica, e l’heiddeggeriano essere-per-la-morte si definisce definitivamente (se così si può dire). Emblematico è l’ultimo testo de L’allodola ottobrina intitolato Alla mia ombra, che Stefano Prandi rintraccia come “calco speculare” del Peter Schlemil di Chamisso, però “non privo di affinità con Caproni”,[3] dal quale siamo partiti: “Qualcuno ti cancelli / a mia immagine e somiglianza / ombra scompagnata / che ancora scivoli / vacillante sui muri / sperduta nelle stanze”.[4]

   Il senso dell’inevitabile morte si palesa in Cattafi fin dall’inizio, tanto che la vita stessa ne appare in fondo solo come un’anticamera. Valga lo stesso titolo d’una composizione che posta all’incirca all’inizio de Le mosche del meriggio, appunto Nell’atrio, in attesa, e questi versi: “[…] ignoto è il regno / alba e attesa, crepuscolo di nubi dove Dio / s’annida, come un colombo gutturale. Oscuro è il regno, ospite nell’atrio / mano incerta e straniera stacca al vento / la lampada incostante  […]”.[5]

  E così, se dall’altezza di queste prime poesie, composte ancora nell’atmosfera ermetica e d’un analogismo che volentieri recupera il correlativo oggettivo montaliano, ci spostiamo più avanti, al tempo della svolta (e della “perdita” cattafiana come direbbe Dante Maffia),  e cioè al capolavoro del 1954 rappresentato da L’osso, l’anima con la scarnificazione ed essenzializzazione del linguaggio poetico, ritroviamo ancora tracce della tanatopoetica che stiamo sbrigativamente delineando: “Un battito d’ali su per le vaste / pareti della memoria non ci sottrae / all’ombre che ci seguono […]”.[6]

   Neanche la memoria dunque, pur recuperando lacerti di vissuto, può alla fine sottrarre al destino inevitabile, laddove il canto, il canto poetico stesso, sono cosa d’un attimo (sempre Heidegger diceva che in fondo “essere presenti significa tenersi fermi nel nulla”). È quanto ci dice l’immagine della “allodola ottobrina” nella raccolta omonima del 1979, l’ultima che Cattafi abbia in qualche modo definito in vita, prima della postuma Chiromanzia d’inverno: “S’alzò in volo e canto invece / l’allodola ottobrina / prima che giungesse concentrato  / il piombo undici dieci”.[7]

   Che quella caduta sia la fine inevitabile del volo, o comunque d’ogni percorso che si delinei nella finitudine della dimensione temporale, è testimoniato dalla considerazione d’insieme di due testi dell’ultima fase, anche se nel primo l’atmosfera sembra stemperarsi. Così in Cammino,[8] primo testo de L’allodola, leggiamo:

 

Tu che mi scorri accanto

come un’aquila fedele nel cammino

di volta in volta raddrizzi paesaggi

storte visioni

alle cose imponi

una dolce chiarezza

e l’enigma è sciolto

tutto in un filo

il cammino allungato.

 

   E nel testo immediatamente successivo, Forze:

 

Le linee che da qui scattano

da ogni passo

e serpeggiando scompaiono

forze del mondo oltre la curva

giunte al paio d’arrivo

(ciascuna ha il suo)

Intorno gli s’attorcono

E fanno fiori e frutti

Buttano semi

Melograne d’autunno.

 

 

3.

 

   Queste linee, per Cattafi, sono partite dal punto zero di Greenwich, nella fase vitalistica e materica della sua poesia, quando, per dirla con Raboni, prevaleva ancora la “figuratività” rispetto alla più astratta “figuralità” successiva: lo stesso tema del viaggio, strettamente connesso a luoghi concreti nella prima fase, successivamente una “diversa, disincarnata incarnazione”.[9] Ma, appunto, ritorniamo a questa prima fase, laddove i luoghi, quelli siciliani delle origini o gli altri attinti in una fame cosmopolitica e in una centrifuga forza sradicante, sono centrali nella loro concreta individuazione.

  L’origine e il distacco sono individuabili fin dall’inizio, se L’agave, ricompreso ne Le mosche del meriggio, così esorta:

 

Abbandona la sabbia siciliana, la musica e il miele

degli Arabi e dei Greci,

rompi i dolci legami, questo torpido

latte delle radiche,

discendi in mare regina sonnolenta

verde bestia con braccia di dolore

come chi è pronto al varco; nelle grandi

città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto

carovane camminano in eterno;

viaggia assieme all’anima

fredda dei gabbiani

assieme al cuore fecondo del pesce pregno

che arricchisce la rete più lontana

alla mano lestissima di Dio

venuta in volo da un nido di nebbia.[10]

 

   Se qui, tutt’uno, abbiamo il luogo d’origine, il distacco e la fine ineluttabile del viaggio (con l’affacciarsi di quel Dio la cui presenza diverrà poi più forte nelle ultime poesie, possiamo però ristare ancora un po’ con Cattafi nella sua terra. Infatti, nonostante l’esortazione di un  testo collocabile negli anni Quaranta, troviamo frequentemente testi nei quali è richiamata la Sicilia. Nella prima raccolta, Nel segno della mano,[11] la poesia Scirocco in Sicilia recita così:

 

Alle porte del Sud rose dal mare

agavi e capre bivaccano covando

il sangue fatto polvere nei secoli

vecchio odore immobile del mondo.

 

Mezzogiorno su razze dolorose

favola sbarcata come un padre

lamento della sete dei cammelli

ogni ulivo è per te una bandiera

ogni cuore l’arancia ritrovata

ogni donna la cavalla cavalcata.

 

 Nel corso degli anni Cinquanta, in prosa Cattafi esplora lo Stretto di Messina, fino ai borghi montani del messinese, e le Eolie, per poi raggiungere altre man mano più lontane isole: Egadi, Pelagie, Ustica, Pantelleria, e la meno prossima di tutte, l’Inghilterra.[12] Già in questi resoconti giornalistici avvertiamo la doppia forza – centripeta e centrifuga – che caratterizza il moto poetico e esistenziale di Cattafi. Se i luoghi sono concreti, già all’altezza di queste prove, se ne avverte il potere di trasfigurazione, come per lo Stretto di Messina che divide terre vicine e lontane allo stesso tempo: “Talvolta lo Stretto di Messina può diventare oceano incalcolabile, Sicilia e Calabria come due persone che si sfiorino, restando dentro di sé remote, due cose contigue ma lontanissime, nella dimensione dell’essere”.[13] Quel rapporto ambiguo tra le due coste che un  altro scrittore, nato solo poco più in là su quella stessa costa e in quella stessa provincia, annotava: Vincenzo Consolo.[14] Quindi, seppure il fenomeno cosiddetto della Fata Morgana, in giornate di particolare calma e caldo, sembra come in una lente avvicinare Reggio a Messina, e sebbene lo Stretto, al centro del Mediterraneo, come passaggio obbligato della storia, abbia accostato le sorti delle due città, esse hanno poi avuto sorti diverse premute com’erano alle spalle da due terre diverse. Rispetto alle sommosse siciliane, i calabresi avrebbero conosciuto lunghi silenzi rassegnati. La concretezza dei luoghi considerati viene fuori invece in descrizioni paesaggistiche come questa dedicata a una delle Eolie: “Alicudi era un cono modesto, un po’ tronco al vertice, dai suoi fianchi sporgevano neri speroni, lacerando una fitta tessitura di righine verdi, parallele: il tenero orzo ancora in erba, messo a crescere sulle solite terrazze. Basse casette sparpagliate sulle pendici; e altro verde meno tenero dell’orzo, scompigliato, in pieno rigoglio, all’assalto di tutto, dei costoni rocciosi, anche; eriche, fichidindia, rovi; rovi, fichidindia, eriche”.[15] E qui senza dubbio abbiamo più di qualcosa della stessa scrittura poetica di Cattafi:[16] più che un’effusione lirica e arcadica, uno sguardo esatto (ricordiamo addirittura un titolo come Qualcosa di preciso) che porta al gusto dell’elencazione che si sposa a quello dell’immediata reiterazione. Riguardo alla mediterraneità essa diventa ancora più forte se ci spostiamo più a sud: “E Lampedusa era Africa, un brandello di Africa rocciosa, carico di una dolcezza secca e dolente, i cui emblemi più spiccati erano palme macilente, fichidindia polverosi, agavi attaccate alla roccia sbiadita, mentre il mare intorno si muoveva coi suoi colori più freschi. […] Fondali dai 2 ai 18 metri; grotte, grandi scogliere, cadute di fondale, alle volte. Visibilità fino a 12 metri, acqua limidissima. Prati di alghe verdi e di alghe nere. Fondo misto, roccioso e sabbioso; e qui la sabbia è bianca come neve”.[17]

   Ma da questi fondali cristallini dell’estremo sud d’Europa, con gli scatti imperiosi e rabbiosi che gli sono propri, Cattafi è capace di saltare alle brume e alle vere nevi dell’estremo nord del Continente. Per sbarcare a Londra e muoversi nell’Ordinata campagna inglese, per raggiungere, nel suo Viaggio in Inghilterra, il cuore stesso dell’isola britannica del quale, con la stessa esattezza, descrive il paesaggio così diverso: “È molto gentile la campagna nel Warwickshire; con una sorta di selvatichezza tristissima, forte e gentile, lungamente educata dalle nebbie, da un Sole pallido e dalla mano veloce dell’uomo che guida le sue molte macchine agricole. La Natura qui è forte; ed essa è quercia, è mano d’uomo (che non distrugge, deforma e altera quando ne può fare a meno), è stuolo infinito di cornacchie che si alzano e si abbassano per poi ancora alzarsi e abbassarsi, instancabilmente”.[18]

 

 

4.

 

   L’Inghilterra, ecco quindi quella partenza, o ripartenza da Greenweech, da cui prende titolo la seconda raccolta di Cattafi, e da cui possiamo ripartire dunque anche noi. Da qui, dai reportage giornalistici e dai viaggi cattafiani, prende dunque avvio quel “diario di bordo” di cui parlava Caproni. Ma anche le pagine sulle isole siciliane in fondo fanno parte di quel diario di bordo, di quel promemoria, di quel continuo appuntare che indica una letteratura diversa da quella memorialistica (cosa che, come è stato giustamente osservato, non sarebbe caratteristica dell’opera di Cattafi): il promemoria si gioca nel tempo stesso dell’esperienza, non ne è una rievocazione a tavolino.

   La Partenza per Greenwich [19] è così rotta verso un altrove che muove da una citazione melvilliana fatta da quell’Hemingway siciliano che, in qualche modo, era Cattafi che a Hemingway pure somigliava fisicamente. La partenza se è azzeramento è sempre radicale, da un punto zero in fondi si parte, aggiungiamo, anche nascendo. Così, più fondamentale è l’affermazione cattafiana:

 

Si parte sempre da Greenwich

dallo zero segnato in ogni carta e in questo

grigio sereno colore d’Inghilterra.

Armi e bagagli, belle

Speranze a prua,

sprezzando le tavole dei numeri

i calcoli che scattano scorrevoli

come toppe addolcite

da un olio armonioso, in un’esatta

prigione.

[…]

Ed alghe, spume,

il fondo azzurro in cui

pesca il gabbiano del ricordo

[…]

 

   Così, Il treno per Parigi (è il titolo d’una poesia, così come gli altri riportati di seguito in corsivo) diventa “nave allegra”, poi scorrono Lussemburgo, Andorra, San Marino, quindi Dieppe,luglio, dove “una nera nave bolle” e “con suono di memoria” e nuovi pensieri entrano accanto ai vecchi “da portare / in mezzo agli anni futuri”, pur in una sensazione di qualcosa che “il cuore perde sulla soglia”, infatti, come scrive a Lowonsford nel 1952: Il tempo gira sul quadrante, giunge / un segno di nebbia sopra il pino / Il mondo pende dalla parte del freddo”, e a Glasgow, e nello stesso anno, e forse nello stesso viaggio, e forse in quello, o in uno di quelli testimoniati anche nei reportage giornalistici, l’ “ombra / in attesa sul sesto meridiano” scrive ancora: “[…] E addio, / entriamo sotto le stelle, nelle tenebre e in questa / antica, rovente tempesta che aggroviglia / tenere fibre, i fili, la vermiglia / rete che ci tiene” se le “tenebre” giocano con le “tenere fibre”, la “rete” ci appare, nel Cattafi ancora in fuoruscita dall’ermetismo, così montaliana. Il siciliano Cattafi è risucchiato anche dalle atmosfere nordiche e dal loro più sottile fascino, e tutto vuole annotare, rendicontare: “La Birra Guinness ha molte porte scure / sui docks e qualche lume / sparso in un lento / regno di chiatte e di vagoni, / di ruggine lungo il fiume, / dove il cigno e il gabbiano sono amici / col petto bianco puntato contro il fango”. E in una Lettera dal Nord, addirittura da Oslo, sempre nel 1952, ritorna (“Qui ho memorie, ho miniere in cui discendere”) il ricordo del patrio scirocco: “Nella patria lontana lo Scirocco / rovina dai paesi / rocciosi dell’interno, / africa asia posti di colonia”.

 

 

5.

 

   Così, un cortocircuito a distanza di anni riporta Cattafi insieme e alla concretezza dei luoghi e al ritorno, dall’altrove attraversato, alla sua terra. Una sezione de L’aria secca del fuoco ritorna a considerare Lo Stretto, [20] dal quale il poeta, pur andato a vivere a Milano, non riesce a distogliere lo sguardo, ed è tra quelle sponde che egli continua a fare rotta, e questo in fondo è anche il suo stesso Epitaffio, come recita un titolo d’un componimento:

 

Il vero traffico dello Stretto

è portare da questa sponda all’altra

e viceversa mucchietti di miseria

avvolti nel giornale mentre il sole imperversa

come una lapide un epitaffio abbagliante

e le nere navi dello Stato

battono una bella bandiera.

 

   E nel Crepuscolo diventano nitidi i particolari da costa a costa:

 

Ci si vede a distanza

– e di mezzo c’è lo Stretto –

da un pezzetto all’altro

di Bel Paese:

blatte di sera diventano lucciole

le fiat coi fari accesi.

 

    E se ancora, in questa sezione, scrive di Messina, o di Tindari, o dei Peloritani e l’aspromonte che si fronteggiano, con in mezzo, di bel nuovo, lo Stretto dai tempi omerici popolate di fate e mostri, nella stessa raccolta, successivamente, ne La linea di costa il piccolo cabotaggio locale si fa di nuovo navigazion e d’alto mare: ed eccolo qui, Fra la Sava e la Drava o Nelle Shetland, tra i Mercanti di Bergen o Sulle navi vichinghe, e quindi Fra le dorsali dell’Honduras e i rilievi di Hispaniola. Ma di nuovo, il viaggiare ci ricorda che una è la meta:

 

Sulle navi vichinghe

l’acquavite era forte

il salmone e la birra

distribuiti bene

l’amore seguiva

un suo libero corso

molti andavano a pesca di sirene

sbattendo la porta

uscivano dalla vita.

 

   Se qui la secchezza dei versi risente ancora del prosciugamento che s’era operato al tempo de L’osso, l’anima, la scrittura di Cattafi, pur nella modulazioni di varianti, sembra conservare una profonda fedeltà a se stessa almeno nei contenuti. Si tratta, anche stilisticamente, di quella sostanziale “regolarità” di cui parlava Raboni che nella sua introduzione alle Poesie scelte consigliava appunto di leggere, al primo impatto, tutto quel corpus come un’unica ininterrotta poesia. Il che alla fine ci permette di caratterizzare come falso movimento quel ritornare sui propri passi cattafiano, un muoversi “Qui nel cerchio già chiuso / nel monotono giro delle cose / nella stanza sprangata eppure invasa / da una luce lontana di crepuscolo”[21] recita una poesia de Le mosche del meriggio, poesia che si conclude con la parola zero: lo zero da cui si parte e cui si giunge. È il senso di immobilità che alla fine si sente in un movimento che congiunge continuamente due estremi, nord e sud, e che nella loro polarità si annullano, positivo e negativo. E così quel moto a luogo cattafiano sembra in fondo solo un modo per ingannare il tempo nell’attesa ineluttabile di quel nulla. Alla maniera di Kafka che pure viene continuamente ricordato a proposito di Cattafi. O come in Buzzati, potremmo dire, per tornare in Italia.

   È vero forse che Cattafi non fu filosofo. Ma forse è vero che quella voce nettamente poetica di Cattafi è anche distillazione di pensiero. Un pensiero del nulla che però non esista a dar conto continuamente del mondo anche laddove esso va continuamente frantumandosi nelle molecole, negli atomi di cui è composto. In una eterna vicissitudine bruniana.


Pubblicato originariamente in "Gradiva", rivista di poesia italiana della State University at Stony Brook, New York, n. 39/40 - spring/fall 2011.

 

 [1] Giorgio Caproni, “La Nazione”, 16 maggio 1964. Il libro di Cattafi recensito è L’osso, l’anima (Mondadori, Milano 1964).

[2] Giorgio Caproni, “La fiera letteraria”, 1 marzo 1959.

[3] Stefano Prandi, Da un intervallo nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Manni, San Cesario di Lecce 2007, p. 192.

[4] Bartolo Cattafi, ora in Ultime, Edizioni Novecento, Palermo 2000, p. 167.

[5] Ora in Bartolo Cattafi, Poesie scelte (1946-1973), a cura di Giovanni Raboni, Oscar Mondadori, Milano 1978, p. 46. Raboni ha poi curato con Vincenzo Leotta anche il volume cattafiano Poesie 1943-1979, uscito prima nello Specchio Mondadori nel 1990 e poi negli Oscar nel 2001. Noi qui però citeremo dal volume del 1978.

[6] Bartolo Cattafi, Poesie scelte cit., p. 69.

[7] Bartolo Cattafi, Ultime cit., p. 83. Il corsivo è di Cattafi. Stefano Prandi mette in evidenza come anche qui torni Montale: il poeta genovese nel Il gallo cedrone già aveva corretto il mito romantico-shelleyano che paragona il volo all’ispirazione; la conclusione è invece la caduta. Cfr. Da un intervallo nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Manni, San Cesario di Lecce 2007, p. 182. È lo stesso Prandi a citare, nel prosieguo del discorso, i versi a cui subito avanti facciamo riferimento nel testo.

[8] Bartolo Cattafi, Ultime cit., p. 21 e poi p. 22.

[9] Giovanni Raboni, Introduzione a Poesie scelte cit., p. 19.

[10] Bartolo Cattafi, Poesie scelte cit., p. 47.

[11] Bartolo Cattafi, Nel centro della mano, Edizioni della Meridiana, Milano 1951. Le cit. successiva è tolta dalla p. 35. Essa è ripresa anche da Paolo Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2003, p. 64. Maccari, come noi dopo, pone in relazione i testi poetici con gli scritti giornalistici dedicati alla Sicilia (Ibid., passim).

[12] Cfr. Bartolo Cattafi, Le isole lontane, a cura di Nino Sottile Zumbo, introduzione di Paolo Maccari, GBM, Messina 2008.  Gli articoli qui raccolti erano usciti in varie pubblicazioni: “Italia nostra”, “Pirelli”, “L’Ora”. Interessante ricordare la giovanile, e inedita, Silenzio delle isole risalente al 1944: Nella pacata fissità di nubi / fu il giorno un rosa / lontano ad occidente, / ove agitavo un sogno, / e ne la febbre / beata, brividendo, / come l’acque correnti 7 a foce, a colorirsi fatue, / vidi l’isole d’oro tacitarsi, / tramutarsi in azzurro / sospeso lembo, di silenzio, a sera. // Da questo fioco lido addormentato / rivolta lento il sasso / cantilenante flutto /  reiterato”. Stilisticamente diversa dalla successiva voce cattafiana, nonché dai testi in prosa a cui la colleghiamo. Maccari, che la riporta nel suo libro cit. (p. 30) tende a collegare il vitalismo e il barocchismo mediterraneo di Cattafi a Federico Garcia Lorca piuttosto che a altrinomi siciliani, come quello di Quasimodo, che pure sono stati fatti (cfr. poi in  Maccari cit.,p. 63).

[13] Bartolo Cattafi, Le isole lontane cit. p. 19.

[14] Cfr. Vincenzo Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986; ora in V.C., Di qua dal faro, Oscar Mondadori, Milano 2001: Consolo chiama in causa direttamente Cattafi e cita il passo da noi stessi chiamato in causa subito prima nel testo (nell’ediz. Mondadori a p. 78). Meno di settanta chilometri separano la Barcellona Pozzo di Gotto di Cattafi dalla Sant’Agata Militello di Consolo: solo che quest’ultima è più lontana dallo Stretto, situata com’è più verso Palermo.

[15] Bartolo Cattafi, Le isole lontane cit., p. 43.

[17] Ibid., p. 61

[18] Ibid., p. 108.

[19] In Poesie scelte questa sezione occupa le pp. 48-58.

[20] Bartolo Cattafi, L’aria secca del fuoco, Mondadori, Milano 1972. La sezione Lo Stretto a cui facciamo rifermento è alle pp. 109-116 di Poesie scelte cit.

[21] Bartolo Cattafi, Poesie scelte, p. 63.


sabato 17 luglio 2021

"Dizionario critico della poesia italiana" a cura di Mario Fresa




Questo volume rappresenta un tentativo di ricognizione che non può essere esaustiva in un territorio magmatico come quello della poesia contemporanea, ancora più magmatico quando ci si avvicina ai nostri giorni. Il curatore, nella sua Premessa iniziale, specifica: "La scelta dei nomi inclusi è stata vagliata con una certa larghezza ma, naturalmente, non può essere considerata definitiva nè completa: sarebbe stato impossibile, d'altronde, censirentutti i rappresentanti della poesia italiana composta e diffusa dal '45 ad oggi, anche solo stimando la cospicua entità e la continua 'fluidità' di un materiale così vasto e complesso, per non dire inesauribile". Uno strumento dunque che, insieme ad altri - dizionari o antologie - può contribuire a dare indicazioni e informazioni sui tanti che scrivono in versi nel nostro Paese. Di per sé è un'operazione ampia, che ha richiesto il lavoro di un cospicuo numero di redattori e un lavoro di raccordo da parte del curatore, un lavoro durato anni. Il lettore quindi avrà un ampio ventaglio di nomi che permetteranno di ricostruire una parte significativa del lavoro poetico dal secondo dopoguerra a oggi. Un'opera impegnativa per la quale va ringraziato Mario Fresa, che a mia volta ringrazio per avermi coinvolto.
A questo tentativo ho infatti partecipato anch'io con la redazione di alcune schede.

RIPORTIAMO QUI LA BANDELLA  DEL VOLUME

  

 La poesia del secondo Novecento è un indiscutibile caposaldo del patrimonio culturale italiano. Ma chi sono i suoi più incisivi e «storici» rappresentanti? Questo dizionario intende essere una guida per conoscerli e per studiare i loro testi, offrendosi come uno strumento di ricerca, di consultazione e di approfondimento: in circa duecentocinquanta schede, alcune delle quali non lontane da veri e propri saggi brevi, è qui presentato, con ampiezza di analisi critiche, di informazioni biografiche e di citazioni di versi, un esauriente quadro d’insieme e un’articolata rassegna delle figure, delle opere e delle correnti più significative della poesia italiana degli ultimi decenni.

Il lettore vi troverà notizie e ragguagli critici non soltanto sui poeti più noti e conosciuti, ma anche su nomi e su libri di scarsa circolazione, spesso immeritatamente trascurati o sottovalutati. 

 Una guida ricca e preziosa, realizzata da un gruppo di oltre cinquanta specialisti, che racconta le vivaci e complesse vicende della poesia italiana contemporanea, partendo dal 1945 per concludere con un’attenta ricognizione delle tendenze più attuali della nostra giovane poesia.


 DIZIONARIO CRITICO DELLA POESIA ITALIANA 1945-2020 a cura di MARIO FRESA, SOCIETA' EDITRICE FIORENTINA, FIRENZE 2021, pp. 212, € 25,00