ENZO REGA
Cominciamo da una questione apparentemente
“superata”, ora che internet è ben più invasivo: l’ossessione di Pasolini
contro la televisione. In un certo momento storico italiano (e non solo) è
sembrata pienamente realizzata la profezia pasoliniana per la quale il potere economico avrebbe fatto a meno
della mediazione del potere politico
uscendo allo scoperto. Nello stesso tempo esso sarebbe stato potere televisivo, con una televisione
che avrebbe svelato vieppiù il suo volto, legata al potere economico-politico e
strumento d’istigazione al consumismo: il berlusconismo è stato tutto questo,
con una televisione commerciale nella quale un Mike Bongiorno, sua incarnata
epifania, considera che il successo di un programma non è più determinato
dall’audience ma dall’aumento di vendita dei prodotti reclamizzati. La critica di
Pasolini al consumismo si dispiega quando il fenomeno da noi è all’inizio: da
un lato è la virtù profetica, dall’altro la capacità di “gigantografare” il
proprio Paese, in una sorta di blow-up,
anche sulla scorta di quanto ha visto nei propri viaggi americani, a New York,
nel 1966 e nel 1969: uno stadio avanzato sia di quello che il “corsaro” chiama
“edonismo consumistico” sia dell’uso in tal senso del mezzo televisivo. Dell’esperienza
americana è testimonianza un libro uscito in Francia e che traduce una vecchia intervista,
a lungo inedita, concessa nel 1969 all’allora direttore dell’Istituto italiano
di cultura, L'inédit de NewYork. Entretien
avec Giuseppe Cardillo (Arléa, Paris 2015, pp. 96, € 7; l’editore sta
pubblicando varie traduzioni da Pasolini). Ed è qui, nella civiltà dei consumi,
con un Marcuse fisicamente poco lontano (l’omologazione pasoliniana non è un
corrispettivo de “l’uomo a una dimensione” marcusiano?), che Pasolini ammette
di star facendo, dopo il Vangelo,
film che si allontanano dalla narrazione epico-mitica muovendo verso parabole
soggettive di stampo problematico-provocatorio, un cinema che si ispira, più
che al Godard suggerito dall’intervistatore, a Brecht: un cinema, afferma
Pasolini “sempre più difficile, più aspro, più complicato, e anche più
provocatorio”; o un teatro elitario, non serializzabile, non medium di massa; o
una “poesia sgradevole, spiacevole, una poesia il meno possibile consumabile”
(la citazione è dall’edizione italiana, uscita in occasione del trentennale
della morte: Pasolini rilegge Pasolini.
Intervista con Luigi Cardillo, a cura e con un saggio di Luigi Fontanella, Archinto
Milano 2005).
Dunque, l’identificazione potere economico-politico-televisivo potrebbe
apparire alle spalle, conclusasi la parabola berlusconiana. Ma lo stesso
successivo governo Monti non ha visto “scendere in campo” direttamente il mondo
dell’economia? E quali poteri e interessi economici si nascondono dietro il
renzismo, nuova maschera che l’economico assume attraverso il politico, tornando
a servirsene come mediazione nell’età del potere economico globalizzato-mediatizzato?
La televisione, per Pasolini, non alleva un cittadino, ma un consumatore: ciò
che, a mutazione antropologica ormai avvenuta, per un sociologo à la page come Zygmunt Bauman è homo consumens in un mondo nel quale le
esistenze di chi non consuma sono “vite di scarto”. Ma il Pasolini degli Scritti corsari già scrive: “L’ansia del
consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia
sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare,
nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha
inconsciamente ricevuto, e a cui ‘deve’ obbedire, a patto di sentirsi diverso.
Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di
tolleranza”. Queste analisi, considerate di ripiegamento nostalgico, sono
invece sul tavolo dell’odierno dibattito sociologico.
Di “immaginazione sociologica” in
Pasolini parla Alfonso Berardinelli (recuperando l’espressione del sociologo
americano Charles Wright Mills) nella sua Prefazione
all’edizione 2008 ripresa nella nuova edizione 2015 degli Scritti corsari. Anche se da Horkheimer, Adorno e Marcuse, fino
indietro allo stesso Marx, nota Berardinelli, tutto era stato già detto, la
forza argomentativa e polemica di Pasolini, la sua semiologia del reale, danno molti frutti; egli “sa ricavare una
tale visione d’insieme da una base empirica limitata alla propria esperienza
personale e occasionale (ma del resto da dove derivava tutto il sapere
‘sociologico’ dei grandi romanzieri del passato, da Balzac e Dickens in poi, se
non dalla loro capacità di vedere quello che avevano sotto gli occhi?)”, e
continua, su Pasolini: “Si resta sbalorditi soprattutto, direi,
dall’inventività inesauribile del suo stile saggistico e polemico, dalla
selvaggia energia e astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica,
dalla sua ‘psicagogia’ che sa far emergere con tanta chiarezza i pregiudizi
intellettuali (di ceto, di casta), e spesso l’ottusità un po’ meschina e
persecutoria dei suoi interlocutori”, che si arroccano in difesa di “nozioni acquisite”
mentre lui a loro cerca di “rivelare qualcosa di nuovo”. Forse era tutto già
detto, ma gli altri continuano a non vedere ciò che è sotto il loro naso: la
sparizione di un mondo. Gli Scritti
corsari, per Berardinelli, registrano tutta la “realtà emotiva e morale di
questo lutto”, con quella tipica “ragione autobiografica” che in Pasolini tiene
insieme corpo e mente, vicende personali e analisi socio-politica, con un “protagonismo
vittimistico” nel quale l’intellettuale espone e mette in gioco l’uomo.
Quell’insieme di Passione e ideologia
che dà il titolo ai saggi del 1960, ma il cui connubio sostanzia, come nota
Giuseppe Leonelli nella sua Prefazione
all’edizione 2009 de Le ceneri di Gramsci,
gli stessi componimenti poetici del tempo (la raccolta, “poesia dell’ideologia”
ma non “ideologica” come disse Pampaloni, è del 1957). Scrive Leonelli: “versi
zoppicanti, e quindi imperfetti …, ma in realtà affannati, come sottesi da una
sorta di extrasistole metrica, un segno, tra i più intensi di una volontà insieme
irruenta e ansiosa, anch’essa costellata di passione, di comunicare con il
lettore”; versi nei quali fecondare il corpo della realtà facendo parlare le
cose (è Pasolini a dirlo). “Nonostante lo schematismo concettuale, Scritti corsari – scrive ancora
Berardinelli – resta uno dei rari esempi di critica radicale della società
sviluppata. Se non può sostituire da solo una sociologia spregiudicata e ricca
di descrizioni … è almeno in parte riuscito a salvare l’onore della nostra
cultura letteraria...”.
Nell’estremo epilogo della parabola esistenziale e intellettuale di
Pasolini, questa raccolta d’interventi, uscita nel 1975, fa il paio con le
postume Lettere luterane del 1976,
nelle quali il “grande tema” resta la “mutazione antropologica”. Tanto che,
come ricorda Guido Crainz nella Prefazione
all’edizione Garzanti 2009 (ripresa nell’edizione 2015), Pasolini invita a
leggere le Lettere insieme alla nuova
stesura de La meglio gioventù, nella
quale l’aga frescia del me paìs si
trasforma in l’aga vecja di un paìs no me.
Il che ci mostra come il lavoro di Pasolini si dispieghi come un’opera aperta (così considera specificamente
i suoi Scritti corsari), nella quale
le diverse scritture – saggistica, polemistica, poetica, narrativa, filmica –
portano avanti uno stesso contraddittorio discorso in una drammatica coerenza
di fondo. La mutazione antropologica è ora nei dibattiti attuali sulle “nuove
identità” globalizzate: pensiamo ai mediascapes
dell’antropologo indiano Arjun Appadurai. Pasolini la declina però in relazione
alla “costruzione di identità” nel “fare gli italiani”, al tempo della “grande
trasformazione” degli anni Cinquanta-Sessanta, in cui si va modificando
quell’Italia che il poemetto storico-geologico-antropologico L’Appennino, ne Le ceneri di Gramsci, percorre da un capo all’altro. E anche nelle Lettere si reiterano le critiche a
consumi e media, legandole all’attacco al Palazzo, fino alla paradossale
proposta di abolire televisione e scuola Riflessioni, scrive Crainz, “legate
solo in parte al clima in cui furono scritte: sono cioè una bussola capace di
guidarci lucidamente anche negli anni trascorsi da allora”, benché quel clima
plumbeo, clerico-fascista, tra stragi e corruzione, resti fondamentale nel
“vissuto immediato” e nella riflessione che ne scaturisce. Nonostante spiragli positivi,
l’analisi rimane lucida e negativa, come per il referendum del 1974 sul
divorzio. Scrive Pasolini: “la mia opinione è che il 59% dei ‘no’ non sta a
dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progressismo e
della democrazia: niente affatto. Esso sta a dimostrare invece … che i ‘ceti
medi’ sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi
non sono più quelli sanfedisti e clericali ma sono i valori … dell’ideologia
edonistica e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo
americano”. L’America che è già l’aiuta
a intravedere l’Italia che sarà.
Pubblicato in "L'indice dei libri del mese", n. 1, Gennaio 2016
I libri di Pier Paolo Pasolini citati
L’Inèdit
de NewYork. Entretien avec Giuseppe
Cardillo,
traduit de l’italien par Anne Bourguignon, pp.96 , € 7, Arléa, Paris 2015.
Pasolini
rilegge Pasolini. Intervista con Luigi Cardillo, a cura e con
un saggio di Luigi Fontanella, con CD, pp. 65, € 20, Archinto, Milano 2005.
Scritti
corsari,
pref. di Alfonso Berardinelli, pp. XII-260, € 12, Garzanti, Milano 2015.
Le
ceneri di Gramsci,
pref. di Giuseppe Leonelli, pp. XI-108, € 11, Garzanti, Milano 2015.
Lettere
luterane,
pref. di Guido Crainz, pp. 225, € 13, Garzanti, Milano 2015.
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