martedì 25 agosto 2020

Mario Perniola, "Estetica italiana contemporanea"

 di

ENZO REGA




Estetica italiana contemporanea: filosofia dell’arte e arte della filosofia

             da "Secondo tempo"  (Marcus Edizioni), Libro Cinquantacinquesimo. Numero monografico dedicato a Mario Perniola (1941-2018) a cura di Alessandro Carandente



   Mario Perniola è stato decente di Estetica all’Università Tor Vergata di Roma dove ha fondato il Centro di studi e documentazione “Linguaggio e Pensiero”: il che ci fa intendere come la riflessione sull’arte e sul bello sia stata intrecciata a quella sulla comunicazione e sul pensiero, e quindi all’attività filosofica nel suo insieme. In più, bisogna tener conto dell’attività, dal 2000, di Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica,  da lui diretta,  che indaga i rapporti tra sapere e potere, propri dei cultural studies, occupandosi ovviamente anche dell'estetica. L’estetica, in Perniola, si fa strumento filosofico generale, come testimoniano le opere dedicate specificamente  a questa branca della filosofia, passata anche “manualisticamente” in rassegna nei suoi sviluppi recenti: L'estetica del Novecento,[1]L’estetica contemporanea. Un panorama globale[2] e infine, sua ultima pubblicazione, Estetica italiana contemporanea,[3] che è quella di cui qui ci occuperemo, nei limiti del possibile, dato il grande ventaglio di nomi fatti e di questioni aperte.

   Per “leggere” l’ampia impostazione di Perniola può essere utile il riferimento al Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano: “un problema fondamentale dell’Estetica è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle categorie spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni fondamentali: A) quella che considera l’arte come conoscenza; B)  quella che la considera come attività pratica; C)  quella che la considera come sensibilità”.[4]

   Non a caso, nel libro del 2011, dedicato all’estetica internazionale, Perniola raggruppa i diversi pensatori in capitoli nei quali raccorda l’estetica con ambiti dichiarati fondamentali: vita, forma, conoscenza, azione, sensibilità, cultura. E nella stessa premessa l’autore, dopo aver chiarito che l’età contemporanea può essere considerata come “l’epoca per eccellenza dell’estetica”, scrive: 

   “[…] nella prima metà del Novecento l’estetica ha preteso di essere molto di più che la teoria filosofica del bello e del buon gusto. Essa da un lato ha stabilito e mantenuto un rapporto di complicità con la letteratura, con le arti figurative, con la musica, senza lasciarsi spaventare dalle innovazioni più ardite e dalle sperimentazioni più rischiose, dall’altro si è sentita coinvolta nella gestione istituzionale, nell’esposizione, nell’organizzazione e nella comunicazione dei prodotti artistici e culturali. Essa  ha affrontato i grandi problemi della vita singola e collettiva, si è interrogata sul senso dell’esistenza, ha promosso ardite utopie sociali e si è sentita coinvolta nei quesiti della vita quotidiana, ha individuato sottili distinzioni conoscitive. […] Infine, la globalizzazione ha reso l’estetica più simile a una filosofia delle culture che a una riflessione sull’essenza del bello e sull’arte”.[5]

 

   Ecco, proprio quest’ultima caratterizzazione ci sembra utile per inquadrare l’opera dedicata alla riflessione estetica italiana dove talvolta proprio lo specifico estetico sembra diciamo così perdersi in un’ottica più ampia. Anche in questo recente e ultimo libro Perniola raggruppa gli autori in capitoli dedicati a specificate posizioni, le quali sono a loro volta relative alla soluzione o meno delle opposizioni fondamentali: 1. La pacificazione estetica: il bello e la sua aporia; 2. Il conflitto estetico: l’ironia e la maschera; 3. L’estetica della morte: il sublime e la vita nuda; L’estetica del tragico: il servo e la marionetta; 5. La civiltà perfezionata: la raffinatezza e l’arguzia; 6) La lotta per la rinascita: l’acutezza contro la comunicazione.

   Nell’introduzione di questo ultimo volume, Perniola ribadisce che “nella modernità, la dimensione estetica ha acquistato un rilievo di primissimo piano annettendo campi tradizionalmente occupati da altre forme culturali e focalizzando sulla bellezza, sull’arte, sullo spettacolo e sulla comunicazione interessi precedentemente orientati verso l’etica e la politica”.[6] Fin dalla sua nascita, nel Settecento, osserva Perniola, l’estetica ha rappresentato, per usare un’espressione di Terry Eagleton, l’“inconscio politico” della società borghese (non a caso il libro del 1990 di Eagleton s’intitola The Ideology of the Aesthetic).

   Per quanto riguarda l’Italia, viene precisata l’importanza data all’arte da entrambe le principali filosofie e riflessioni estetiche della prima metà del Novecento, quelle di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, per i quali l’arte è centrale e pervasiva (pur nella dialettica dei distinti di Croce e nel primato hegeliano della filosofia per Gentile). Nella seconda metà del Novecento i riferimenti però cambiano e la scena è occupata da Antonio Gramsci e Luigi Pareyson: come si sa, Gramsci affida all’arte ad ogni livello – colto e popolare – una funzione trasformatrice; Pareyson esamina la “formatività” dell’arte in ogni ambito. Entrambi pensano a una forma di sintesi d’impianto idealistico: in Gramsci di tipo dialettico, in Pareyson organicistico. A ben vedere, continuava ad agire in essi l’estetica classica della bellezza come forza armonizzatrice.

   Accanto alla nozione di bello, dagli anni Sessanta-Settanta del Novecento nell’estetica italiana si è fatto posto il concetto di sublime, non nel senso kantiano di pacificazione finale grazie a un soggetto che si trascende superando lo sconvolgimento iniziale, quanto piuttosto nell’accezione più lacerante di un Burke. Dal rapporto tra i conflitti, e dalla loro conciliazione o mancata soluzione, si originano appunto le sei tendenze esemplificate nei titoli dei capitoli.

 

   Nel tentativo di “pacificazione estetica” trova collocazione Remo Bodei che si muove in parte su una linea di conciliazione hegeliana: preso atto delle scomposizioni nella contemporaneità, e per sottrarsi allo “squallore dell’insignificante” e al “trionfo della banalità e della chiacchiera”, Bodei sostiene che bisogna riconoscere all’estetica un valore precedentemente riconosciuto alla moralità e attribuire al bello un rilievo politico.  Più distante dalla dialettica idealista, e più a ridosso della tradizione neoplatonica, si muove la nozione di armonia di Massimo Cacciari: l’angelo necessario del filosofo veneto “è quello della comunicazione, dell’intercessione, del collegamento: grazie a esso il mondo può essere visto come un ‘uni-verso’, cioè un tutto armonico, una ‘concordia discors polifonica’. […] Il discorso di Cacciari è pervaso da un afflato spiritualistico, […] rintracciabile […] nella tradizione neoplatonica […] . Da ciò deriva la forte tonalità estetica del suo pensiero” (p. 21). Nel pensiero di Cacciari, dunque, gli opposti non sono contraddittori e tantomeno polari (come rispettivamente in Gramsci e Pareyson) ma “correlativi”. La “pace” a cui pensa Cacciari è eraclitea, e nasce dall’agone che è “armonizzante”. “Il pensiero di Cacciari resta un pensiero dell’Uno, ma di un Uno armonizzato in parti, e quindi estetico” (p. 25). Il richiamo alla ragione e ai valori armonizzanti è per Cacciari l’antidoto al nichilismo.

   Pur restando in una visione monistica dell’essere (derivata da Emanuele Severino) e pacificata del bello, Massimo Donà immette un dinamismo derivante dalla conoscenza delle avanguardie artistiche, oltre che dalla sua interpretazione del concetto di aporia: infatti, oggi viviamo un’esperienza aporetica, nella quale discorsi differenti si presentano con analoga forza; aporia che non possiamo evitare, ma che possiamo affrontare proprio con l’arte perché fin dai poemi omerici e dalla tragedia greca essa ha visto la realtà nella sua complessità. L’arte è infatti aporetica per antonomasia, ed è il luogo dell’enigma: essa insegna il modo per vivere l’aporia in maniera né tragica né comica, bensì “euforica”: cioè, “ben sopportata”.

 

   Non pensano invece a una qualche forma di conciliazione estetica né Eco né Vattimo, che affrontano i “conflitti multipli”, cui siamo esposti, rispettivamente con l’ironia e la maschera.

   In questo senso è emblematico il concetto di opera aperta di Umberto Eco che affronta il “carattere polidimensionale” della realtà, passando però dalla parole, dai segni – in un’interrotta attività semiotica – e non dalle cose, e a prescindere dal fatto che ai segni corrispondano davvero delle cose: per cui ci si trova esposti alla possibilità della menzogna, in una estetica fuzzy dominata dalla logica di concetti vaghi e sfumati. Le combinazioni degli stessi fenomeni culturali non possono essere ricondotte a un unico tipo: pertanto l’analisi si fa anche critica dell’ideologia perché l’ideologia pretende al contrario di dare una lettura univoca e unilaterale della realtà. Questo distacco è costitutivo dell’ironia. Va notato però che se anche i testi possono avere molti significati, non possono però avere tutti i significati: “Pertanto è errato vedere in Eco un atteggiamento cinico, disimpegnato o estetizzante. Al contrario, il suo atteggiamento è segnato da un forte pensiero dell’opposizione” (p. 45).

   Il discorso sulla menzogna di Gianni Vattimo prende invece le mosse  da Nietzsche e da Schopenhauer:  ma per Vattimo, a differenza di Schopenhauer, dietro il velo, dietro la maschera, non c’è un mondo vero (e qui si torna a Nietzsche). Vattimo parla di un’apparenza, di una maschera buona e di una cattiva: quella cattiva rimanda a una realtà trascendente, quella buona vi rinuncia: allo stesso modo c’è una menzogna “menzognera” e una “veritiera”. Non bisogna dunque perseguire una liberazione dall’illusione ma una liberazione dell’illusione (e qui di nuovo Nietzsche: l’unico mondo vero è quello illusorio).  Per Vattimo dunque si rinuncia sia a Dio che alla ragione perché la risposta è solamente nell’arte, ed è nell’arte che si combatte anche una battaglia per la filosofia. Con un percorso diverso da un Marcuse, si scopre il ruolo politico di artisti ed emarginati/marginali. Il pensiero che rinuncia alla metafisica è dunque “debole” (secondo una categoria che ebbe molto successo qualche decennio fa) perché rinuncia a categorie forti, ma è al contempo forte perché osa rinunciarvi.

 

   Il tema della maschera introduce all’influenza esercitata da Luigi Pirandello, con i concetti di umorismo, maschera e di “vita nuda”: la vita non ha un fine chiaro, allora è importante che ne abbia almeno uno illusorio ed è necessario che si dia importanza a qualcosa, per quanto vana. Una concezione che si riavvicina a quella di Nietzsche e che ci introduce a Giorgio Colli, che è stato non solo studioso di Nietzsche, ma anche curatore, con Mazzino Montinari, della monumentale riedizione di tutte le opere e di tutti i frammenti. Figura irregolare, Colli ha finito per avere grande influenza anche al di fuori del recinto degli specialisti: il mondo che vediamo, per Colli, è espressione di un qualcosa che resta ignoto e il “fondo della vita” è inesprimibile. Tutto – società, cultura, scienza e scrittura – è una grande menzogna. Non volendo (in quanto appartato), Colli finisce per “esprime[re] molto bene il carattere distruttivo e autodistruttivo della contestazione e del ribellismo italiano degli anni settanta, che sotto l’apparenza della modernizzazione e di una radicale rottura col passato riattivarono pulsioni e modi di sentire appartenenti all’Italia arcaica, oscura e pietrificata in una atemporalità abissale” (p. 79). Estraneo a un clima pur sempre illuministico nel quale si muovevano Bodei, Cacciari, Eco e Vattimo, Colli sembra propendere verso l’esoterismo, riprendendo Nietzsche in un modo diverso dallo stesso Vattimo. E di Niezsche Colli condivide il ritorno a un passato arcaico. È in questo modo che lo scarto irrisolvibile del sublime si esprime nel suo pensiero.

     Altro anti-accademico è stato Manlio Sgalambro, che ha raggiunto ugualmente un’ampia popolarità al di fuori dell’ambiente specialistico, in apparente contrasto con il “tono burbero e arcigno” della sua scrittura. Se quello di Vattimo è un “pensiero debole”, quello di Salambro, è piuttosto un “pensiero triste”, nel quale gli “uomini ormai sono cose” e la scienza impotente: il tutto in un clima da “catastrofe finale” nel quale la filosofia ha senso solo “per la malinconia che desta”. Secondo Perniola: “Su un punto tuttavia Sgalambro e Vattimo sembrano concordare, ovvero nel considerare la filosofia come prossima all’arte” (p. 95), a tutto vantaggio di un contenuto emozionale rispetto a quello teoretico. E pensiero debole e triste in qualche modo si riavvicinano. Anche Dio, il baluardo di un pensiero forte, viene declassato e ricondotto nel mondo: non si tratta però di una visione panteistica per cui Dio è in tutte le cose: più semplicemente egli è cosa tra le cose, e come esse “abietto”. Un Dio che distrugge invece di creare: un Dio che “indigna”. L’estetica della morte di Sgalambro – un’anedonia ovvero incapacità di provare piacere –  sembra leggere il  mondo di oggi, come è accaduto per l’altro inattuale Colli, nonostante il carattere appartato del pensatore, almeno fino a un certo punto della propria vita.

     Il filone del sublime – che molte pagine occupa nel libro – trova coronamento nell’opera di Giorgio Agamben, di altissimo livello filosofico ma al contempo con una risonanza mondiale ottenuta solo da un Pirandello tra gli italiani– e nonostante l’assenza di qualsiasi consolazione edificante. Come Ortega, Agamben individua una regressione dell’umanità proprio in quegli aspetti che ne indicherebbero uno sviluppo, quali lo sport e la pubblicità. E come molti autori dell’estetica del sublime auspica il ritorno a un mondo rurale caratterizzato da una “storia stazionaria” che egli privilegia rispetto alla “storia cumulativa”. Ciò recuperando la distinzione di Claude Lévi-Strauss tra società “fredde” e “calde”: le prime caratterizzate dal rito, le seconde dal gioco; le prime adulte per la capacità di trasmettersi in tutta autorevolezza l’eredità del passato, le seconde invece infantili e incapaci al contrario di liberarsi di quelli che appaiono come i “fantasmi dal passato”. A differenza di altri autori del sublime, Agamben rivendica la superiorità della filosofia e lo fa, secondo Perniola, “con una sottigliezza ermeneutica eccezionale” (p. 128). Quella che Agamben aveva caratterizzato inizialmente come “infantilizzazione” dell’umanità, viene poi da lui connotata come “bestializzazione”: una condizione  di “stordimento” che comporta un heideggeriano venir meno del linguaggio, nonostante l’apparente ipertrofia comunicativa.

 

   Il tragico invece, osserva Perniola, non ha mai avuto grande cittadinanza nella cultura italiana. Pareyson per esempio, rimprovera la leggerezza dei suoi allievi, Eco e Vattimo, nuove “anime belle”. È Pareyson stesso ad assumere la sfida del tragico – in una contesa col pensiero di Jaspers –  fin nell’accettazione della presenza inquietante del male in Dio stesso, un Dio che non si risolve nella completa identificazione con il bene e con l’essere. La sfida al male assume lo stesso significato del sublime in Kant (il guerriero che non si spaventa e che, non rifuggendo il pericolo, si mette all’opera). Ma se in Kant il punto d’arrivo è nella morale, in Pareyson esso è colto attraverso l’entusiasmo estetico.

   Nell’estetica del tragico s’inserisce anche Sergio Givone. Per lui “L’avventura della poesia moderna si identifica con un movimento di rottura, di emancipazione nei confronti di qualsiasi identità, e perciò la poesia è più prossima al ‘pensiero tragico’ di quanto sia la filosofia, che sembra muoversi irrimediabilmente verso la demitizzazione e la secolarizzazione” (p. 150). Anche Givone – a dire di Perniola –, pur parlando apparentemente di altro, finisce per dare un quadro più veritiero della realtà italiana rispetto a chi si preoccupa di starne invece a ridosso: così l’immaginario della televisione a cui crede la maggioranza degli italiani non appare più veritiero delle “visioni” di Williame Blake, autore al quale Givone ha dedicato un magistrale studio.

   In questa linea Perniola inserisce anche il Teatro dei sensibili di Guido Ceronetti, un teatro di marionette la cui attività “clandestina” viene paragonata a quella delle coeve Brigate Rosse: “La domanda provocatoria che sembra implicita nel Teatro dei Sensibili potrebbe essere: ‘I brigatisti sanno quello che fanno’ oppure credono di essere dei rivoluzionari, mentre in realtà sono dei comunicatori senza volto?”. La tragicità delle Br sta proprio nel diventare l’opposto di quello che credono (curiosamente, la casa editrice creata da Renato Curcio, osserva Perniola, si chiama proprio Senbili alle foglie con una probabilmente involontaria corrispondenza ceronettiana). Comunque, “Per Ceronetti tutte le vite umane sono tragiche, indipendentemente dal risultato […]” (p. 167).

 

   La riflessione estetica italiana condotta fin qui ha riguardato quattro categorie fondamentali – bello, ironia, sublime e tragico –, ma tuttavia non si esaurisce non il tragico stesso.  Perniola ritiene ancora necessario il ricorso alle categorie della sottigliezza e dell’arguzia: qui il conflitto tra gli opposti non risulta risolvibile con l’annullamento di uno dei termini; il riferimento è a Freud, al quale si deve lo studio del Witz, il motto di spirito, che appare come un compromesso tra i termini in conflitto. “L’arguzia è appunto il modo estetico di pensare una lotta estrema senza farsi coinvolgere nell’utopia della pace, nel mascheramento dell’ironia e nemmeno nel terrore del sublime o nelle sfide tragiche” (p. 171). Questa modalità estetica sarebbe rinvenibile nella sprezzatura di Cristina Campo: per la Campo sarebbe stato inutile combattere apertamente contro un nemico dalla forza soverchiante; il suo è “un atteggiamento etico-estetico che implica piglio, disinvoltura, noncuranza” (p. 171). Una vita e un’opera non si giudicano per la Campo dall’apparenza, dall’aspetto finale,  ma dalla sapienza della tessitura, come nel caso di un tappeto secondo l’esempio fatto dall’autrice stessa: da questo lavoro, e lavorìo, deriva la perfezione.

    Lungo questa linea, Perniola inanella i nomi di Giampiero Moretti, Rubina Giorgi e Italo Calvino, personalità molto differenti tra loro. Della Giorgi, per fare solo un esempio, sono per Perniola esemplari i versi di apertura di Esercizi 1: “la lingua è un oceano circolare / la mente è tratta in cerchio / così nasce / così muore / così rinasce” (cit. a p. 178). E così, per Calvino, le fiabe sono il catalogo dei destini che possono toccare a un essere umano con infinita possibilità di metamorfosi. Emblematiche sono poi Le lezioni americane di Calvino che, citato da Perniola (p. 189), afferma in apertura: “Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-pesantezza, e sosterrò le ragioni della leggerezza”. Ma la leggerezza a cui pensa lo scrittore italiano – in attività come la letteratura e la filosofia che tutto sono fuorché leggere – è appunto la sottigliezza. Calvino, pur contrario alle posizioni apocalittiche degli autori del sublime, non fa però neanche concessioni alla società della comunicazione e dello spettacolo. Si mantiene elegantemente – possiamo aggiungere – in un’altra dimensione,

      L’opposizione viene affrontata da Roberto Calasso ricorrendo invece a due modelli estetici del mondo greco. Il primo, spartano e poi platonico, pensa al bello come ordine e armonia; il secondo, soprattutto ateniese, individua nel mito un conflitto insanabile: le nozze di Cadmo e Armonia, che sembrano il maggior punto di avvicinamento tra il divino e l’umano sono anche premessa della rovina.

 

   L’ultima risposta che Perniola individua nell’estetica italiana è quella dell’acutezza. Essa – che ovviamente non difetta in varia misura negli autori fin qui trattati – diventa emblematica in Gillo Dorfles, “una figura eccezionale, un sorprendente connubio di austerità e frivolezza, di erudizione e mondanità, di spirito critico e di indulgenza, di rigore filologico e illimitata curiosità intellettuale attenta anche alle manifestazioni più futili della società contemporanea, di humour e conoscenze tecniche […]: a tutto ciò si aggiunge un’ottica cosmopolita che non si limita alle culture occidentali […]” (p. 203). Intellettuale a tutto tondo, dunque, filosofo, artista e critico d’arte, Dorfles è l’anello di congiunzione che unisce la cultura umanistica che ha preceduto il Sessantotto con l’epoca attuale. Sostenitore della grandezza di Hegel, in chiave diversa ne recupera un aspetto fondamentale già nel titolo di due suoi titoli celeberrimi: Il divenire delle arti (1959) e Il divenire della critica (1976). Servendosi della sociologia e della psicoanalisi, della semiotica e della cronaca artistica e mondana, dell’architettura e dell’ecologia e passando dalla filosofia alla moda, Dorfles cerca più di capire che condannare, seguendo il precetto di Epitteto: “Usa unicamente l’impulso e la ripulsa, però in modo leggero, con riserve e senza trasporto”.

   Ampiezza di interessi ritroviamo infine in Gianni Carchia: estetica antropologica, orfismo, culture extraeuropee, radicalismo politico e controcultura in stile anni Settanta. Carchia ha ripercorso le estetiche del sublime e del tragico riconducendole a radici stoiche: “Carchia intende riportare il sublime al suo significato originario, che individua non nel pensiero tragico, ma in Pirandello” (p. 210), tralasciandone invece l’impostazione kantiana. Infine, vale la pena ricordarlo qui, Carchia parla del “filosofo come artista”. Egli però non vuole porre sullo stesso stesso piano arte e filosofia; piuttosto, partendo da un giudizio negativo sugli specialisti di estetica, vuol parlare, più che di una “filosofia dell’arte”,  di un’“arte della filosofia”. Il vero artista oggi sarebbe dunque il filosofo che lega e collega. Anche Nietzsche parlava del filosofo come artista: al cospetto, nota Perniola, quello di Carchia vuole però più modestamente essere un artigiano.

   Perniola conclude il suo ampio, colto ma anche discorsivo percorso con un riferimento alla propria concezione etico-estetica di un cattolicesimo “capace di essere recepito da altre culture senza sollevare troppe diffidenze e ostilità”, realizzando davvero la propria universalità, come dovrebbe essere stando al significato stesso della parola che designa questa Chiesa.  Perniola accosta la sua visione a quella esposta da Andrew Greeley in The Catholic Imagination del 2000: “Per Greeley, i cattolici vivono in un mondo incantato: i rituali, le arti, la musica, l’architettura , le devozioni, le storie creano un clima estetico che è parte essenziale dell’immaginazione cattolica e le conferisce un carattere metaforico” (p. 233). Il cattolicesimo ufficiale non sempre è stato consapevole di questo potenziale e la stessa immaginazione cattolica in realtà deve andare oltre la sola e semplice professione di fede.

   Questo universalismo ha dunque un significato culturale e politico. Ciò ci dà la possibilità, in conclusione, di riannodare i fili di questo veloce “sunto” e di rimarcare come l’estetica sia andata, insieme all’arte, oltre il mondo dell’arte: “Non bisogna farsi arruolare in nessun conflitto tra le civiltà, bensì combattere per salvare qualcosa della saggezza dall’oscurantismo e dall’infantilismo dilagante. Per lo scrivente [Perniola], la Chiesa cattolica può farlo meglio degli Stati e delle organizzazioni sovranazionali, a patto che sappia liberarsi dal dogmatismo ideologico e dai pregiudizi. In tal modo egli ritiene di interpretare e rinnovare la tradizione etico-estetica italiana che, affondando le sue radici nell’universalismo antico, costituisce il miglior antidoto alle chiusure nazionalistiche, neoetniche e strapaesane” (pp. 234-235). Al di là della fiducia negli sviluppi del cattolicesimo, sono queste parole, oggi, di grande forza.



[1], Il Mulino, Bologna 1997.

[2] Ivi, 2011.

[3] Sottotitolo: Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant’anni, Bompiani, Milano 2017.r

[4] Nicola Abbagnano, Estetica in Dizionario di Filosofia, seconda edizione riveduta e accresciuta, Utet, Torino, 1971, 1984, p. 354.

[5] L’estetica contemporanea. Un panorama globale cit. pp. 9-10. Sembra utile riportare anche almeno una parte della citazione omessa nel testo: l’Estetica “Ha poi esaminato questioni religiose e teologiche di portata storica, ha indagato le proprie affinità e divergenze con la morale e con l’economia, ha stabilito relazioni con tutte le altre discipline filosofiche, con le scienze umane e perfino con quelle naturali, fisiche e matematiche. Inoltre ha oltrepassato le frontiere dell’occidente […]” (p. 99.)

[6] Perniola, Estetica italiana contemporanea cit., p. 7. I riferimenti alle pagine di questo libro in seguito saranno inseriti nel testo, tra parentesi. Dobbiamo purtroppo rinunciare a citare le opere che Perniola analizza puntualmente: il suo è un libro di libri con il quale un breve saggio non può gareggiare.


Rivcista Secondo Tempo Libro 55


 

 

 

 

 

 

LIBRO CINQUANTACINQUESIMO

NUMERO MONOGRAFICO DEDICATO A MARIO PERNIOLA (1941-2018)
a cura di Alessandro Carandente

TESTI E INTERVENTI DI E SU

EDUARDO ALAMARO
RINO CAPUTO
ALESSANDRO CARANDENTE
MARCELLO CARLINO
ALFONSO CEPPARULO
MARIO COSTA
LUIGI FRANZESE
CARLO DI LEGGE
NICOLA MAGLIULO
G. BATTISTA NAZZARO
GERARDO PEDICINI
ENZO REGA
SALVATORE VIOLANTE
HORACIO ZABALA

http://www.marcusedizioni.it/libro_cinquantacinquesimo.htm

4 commenti:

  1. L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La poetry kitchen

    Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
    L’Evento è l’esito di un incontro con un segno.

    I testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop o poetry kitchen. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
    In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
    La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
    La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
    La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
    Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere.
    Così è se vi piace.

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    1. Mah. Io credo che anche se la poesia pop nel suo facere riesce non dico a dare ma anche solo a far intravedere il non orientamento complessivo del mondo, essa finirà comunque per spingere necessariamente, è nella natura dell'uomo, alla ricerca di un sentiero meno sassoso ed impervio.

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