di
ENZO REGA
Estetica
italiana contemporanea: filosofia dell’arte e arte della filosofia
da "Secondo tempo" (Marcus Edizioni), Libro Cinquantacinquesimo. Numero monografico dedicato a Mario Perniola (1941-2018) a cura di Alessandro Carandente
Mario Perniola è stato decente di Estetica all’Università Tor Vergata di Roma dove ha fondato il Centro di studi e documentazione “Linguaggio e Pensiero”: il che ci fa intendere come la riflessione sull’arte e sul bello sia stata intrecciata a quella sulla comunicazione e sul pensiero, e quindi all’attività filosofica nel suo insieme. In più, bisogna tener conto dell’attività, dal 2000, di Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica, da lui diretta, che indaga i rapporti tra sapere e potere, propri dei cultural studies, occupandosi ovviamente anche dell'estetica. L’estetica, in Perniola, si fa strumento filosofico generale, come testimoniano le opere dedicate specificamente a questa branca della filosofia, passata anche “manualisticamente” in rassegna nei suoi sviluppi recenti: L'estetica del Novecento,[1]L’estetica contemporanea. Un panorama globale[2] e infine, sua ultima pubblicazione, Estetica italiana contemporanea,[3] che è quella di cui qui ci occuperemo, nei limiti del possibile, dato il grande ventaglio di nomi fatti e di questioni aperte.
Per “leggere” l’ampia impostazione di Perniola può essere utile il
riferimento al Dizionario di filosofia di
Nicola Abbagnano: “un problema fondamentale dell’Estetica è quello del rapporto
tra l’arte e l’uomo cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema
delle facoltà o delle categorie spirituali. Si possono distinguere a questo
proposito tre concezioni fondamentali: A)
quella che considera l’arte come conoscenza; B) quella che la considera
come attività pratica; C) quella che la considera come sensibilità”.[4]
Non a caso, nel libro del 2011, dedicato all’estetica internazionale, Perniola raggruppa i diversi pensatori in capitoli nei quali raccorda l’estetica con ambiti dichiarati fondamentali: vita, forma, conoscenza, azione, sensibilità, cultura. E nella stessa premessa l’autore, dopo aver chiarito che l’età contemporanea può essere considerata come “l’epoca per eccellenza dell’estetica”, scrive:
“[…] nella prima metà del Novecento l’estetica ha preteso di essere molto
di più che la teoria filosofica del bello e del buon gusto. Essa da un lato ha
stabilito e mantenuto un rapporto di complicità con la letteratura, con le arti
figurative, con la musica, senza lasciarsi spaventare dalle innovazioni più
ardite e dalle sperimentazioni più rischiose, dall’altro si è sentita coinvolta
nella gestione istituzionale, nell’esposizione, nell’organizzazione e nella
comunicazione dei prodotti artistici e culturali. Essa ha affrontato i grandi problemi della vita
singola e collettiva, si è interrogata sul senso dell’esistenza, ha promosso
ardite utopie sociali e si è sentita coinvolta nei quesiti della vita
quotidiana, ha individuato sottili distinzioni conoscitive. […] Infine, la
globalizzazione ha reso l’estetica più simile a una filosofia delle culture che
a una riflessione sull’essenza del bello e sull’arte”.[5]
Ecco, proprio quest’ultima caratterizzazione ci sembra utile per
inquadrare l’opera dedicata alla riflessione estetica italiana dove talvolta
proprio lo specifico estetico sembra diciamo così perdersi in un’ottica più
ampia. Anche in questo recente e ultimo libro Perniola raggruppa gli autori in
capitoli dedicati a specificate posizioni, le quali sono a loro volta relative
alla soluzione o meno delle opposizioni fondamentali: 1. La pacificazione
estetica: il bello e la sua aporia; 2.
Il conflitto estetico: l’ironia e la maschera; 3. L’estetica della morte: il sublime e la vita nuda; L’estetica del tragico: il servo e la
marionetta; 5. La civiltà
perfezionata: la raffinatezza e
l’arguzia; 6) La lotta per la rinascita: l’acutezza contro la comunicazione.
Nell’introduzione di questo ultimo volume, Perniola ribadisce che “nella
modernità, la dimensione estetica ha acquistato un rilievo di primissimo piano
annettendo campi tradizionalmente occupati da altre forme culturali e
focalizzando sulla bellezza, sull’arte, sullo spettacolo e sulla comunicazione
interessi precedentemente orientati verso l’etica e la politica”.[6]
Fin dalla sua nascita, nel Settecento, osserva Perniola, l’estetica ha
rappresentato, per usare un’espressione di Terry Eagleton, l’“inconscio
politico” della società borghese (non a caso il libro del 1990 di Eagleton
s’intitola The Ideology of the Aesthetic).
Per quanto riguarda l’Italia, viene precisata l’importanza data all’arte
da entrambe le principali filosofie e riflessioni estetiche della prima metà
del Novecento, quelle di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, per i quali
l’arte è centrale e pervasiva (pur nella dialettica dei distinti di Croce e nel
primato hegeliano della filosofia per Gentile). Nella seconda metà del
Novecento i riferimenti però cambiano e la scena è occupata da Antonio Gramsci
e Luigi Pareyson: come si sa, Gramsci affida all’arte ad ogni livello – colto e
popolare – una funzione trasformatrice; Pareyson esamina la “formatività”
dell’arte in ogni ambito. Entrambi pensano a una forma di sintesi d’impianto
idealistico: in Gramsci di tipo dialettico, in Pareyson organicistico. A ben
vedere, continuava ad agire in essi l’estetica classica della bellezza come
forza armonizzatrice.
Accanto alla nozione di bello, dagli anni Sessanta-Settanta del Novecento
nell’estetica italiana si è fatto posto il concetto di sublime, non nel senso
kantiano di pacificazione finale grazie a un soggetto che si trascende
superando lo sconvolgimento iniziale, quanto piuttosto nell’accezione più
lacerante di un Burke. Dal rapporto tra i conflitti, e dalla loro conciliazione
o mancata soluzione, si originano appunto le sei tendenze esemplificate nei
titoli dei capitoli.
Nel tentativo di “pacificazione estetica” trova collocazione Remo Bodei che si muove in parte su una linea
di conciliazione hegeliana: preso atto delle scomposizioni nella contemporaneità, e per sottrarsi allo
“squallore dell’insignificante” e al “trionfo della banalità e della
chiacchiera”, Bodei sostiene che bisogna riconoscere all’estetica un valore precedentemente
riconosciuto alla moralità e attribuire al bello un rilievo politico. Più distante dalla dialettica idealista, e più
a ridosso della tradizione neoplatonica, si muove la nozione di armonia di Massimo Cacciari: l’angelo necessario del filosofo veneto “è quello
della comunicazione, dell’intercessione, del collegamento: grazie a esso il
mondo può essere visto come un ‘uni-verso’,
cioè un tutto armonico, una ‘concordia
discors polifonica’. […] Il discorso di Cacciari è pervaso da un afflato spiritualistico,
[…] rintracciabile […] nella tradizione neoplatonica […] . Da ciò deriva la
forte tonalità estetica del suo pensiero” (p. 21). Nel pensiero di Cacciari,
dunque, gli opposti non sono contraddittori e tantomeno polari (come
rispettivamente in Gramsci e Pareyson) ma “correlativi”. La “pace” a cui pensa
Cacciari è eraclitea, e nasce dall’agone che è “armonizzante”. “Il pensiero di
Cacciari resta un pensiero dell’Uno, ma di un Uno armonizzato in parti, e
quindi estetico” (p. 25). Il richiamo alla ragione e ai valori armonizzanti è
per Cacciari l’antidoto al nichilismo.
Pur restando in una visione monistica dell’essere (derivata da Emanuele
Severino) e pacificata del bello, Massimo
Donà immette un dinamismo derivante dalla conoscenza delle avanguardie
artistiche, oltre che dalla sua interpretazione del concetto di aporia: infatti, oggi viviamo
un’esperienza aporetica, nella quale discorsi differenti si presentano con
analoga forza; aporia che non possiamo evitare, ma che possiamo affrontare
proprio con l’arte perché fin dai poemi omerici e dalla tragedia greca essa ha visto
la realtà nella sua complessità. L’arte è infatti aporetica per antonomasia, ed
è il luogo dell’enigma: essa insegna il modo per vivere l’aporia in maniera né
tragica né comica, bensì “euforica”: cioè, “ben sopportata”.
Non pensano invece a una qualche forma di conciliazione estetica né Eco
né Vattimo, che affrontano i “conflitti multipli”, cui siamo esposti,
rispettivamente con l’ironia e la maschera.
In questo senso è emblematico il concetto di opera aperta di Umberto Eco che
affronta il “carattere polidimensionale” della realtà, passando però dalla
parole, dai segni – in un’interrotta attività semiotica – e non dalle cose, e a
prescindere dal fatto che ai segni corrispondano davvero delle cose: per cui ci
si trova esposti alla possibilità della menzogna, in una estetica fuzzy dominata dalla logica di concetti vaghi e sfumati. Le
combinazioni degli stessi fenomeni culturali non possono essere ricondotte a un
unico tipo: pertanto l’analisi si fa anche critica dell’ideologia perché
l’ideologia pretende al contrario di dare una lettura univoca e unilaterale
della realtà. Questo distacco è costitutivo dell’ironia. Va notato però che se anche i testi possono avere molti significati, non possono però
avere tutti i significati: “Pertanto
è errato vedere in Eco un atteggiamento cinico, disimpegnato o estetizzante. Al
contrario, il suo atteggiamento è segnato da un forte pensiero
dell’opposizione” (p. 45).
Il discorso sulla menzogna di Gianni Vattimo prende invece le mosse da Nietzsche e da Schopenhauer: ma per Vattimo, a differenza di Schopenhauer,
dietro il velo, dietro la maschera, non c’è un mondo vero (e qui si torna a
Nietzsche). Vattimo parla di un’apparenza, di una maschera buona e di una cattiva:
quella cattiva rimanda a una realtà trascendente, quella buona vi rinuncia: allo
stesso modo c’è una menzogna “menzognera” e una “veritiera”. Non bisogna dunque
perseguire una liberazione dall’illusione ma una liberazione dell’illusione (e
qui di nuovo Nietzsche: l’unico mondo vero è quello illusorio). Per Vattimo dunque si rinuncia sia a Dio che
alla ragione perché la risposta è solamente nell’arte, ed è nell’arte che si
combatte anche una battaglia per la filosofia. Con un percorso diverso da un
Marcuse, si scopre il ruolo politico di artisti ed emarginati/marginali. Il
pensiero che rinuncia alla metafisica è dunque “debole” (secondo una categoria
che ebbe molto successo qualche decennio fa) perché rinuncia a categorie forti,
ma è al contempo forte perché osa rinunciarvi.
Il tema della maschera introduce all’influenza esercitata da Luigi Pirandello, con i concetti di
umorismo, maschera e di “vita nuda”: la vita non ha un fine chiaro, allora è
importante che ne abbia almeno uno illusorio ed è necessario che si dia
importanza a qualcosa, per quanto vana. Una concezione che si riavvicina a
quella di Nietzsche e che ci introduce a Giorgio
Colli, che è stato non solo studioso di Nietzsche, ma anche curatore, con
Mazzino Montinari, della monumentale riedizione di tutte le opere e di tutti i
frammenti. Figura irregolare, Colli ha finito per avere grande influenza anche
al di fuori del recinto degli specialisti: il mondo che vediamo, per Colli, è
espressione di un qualcosa che resta ignoto e il “fondo della vita” è
inesprimibile. Tutto – società, cultura, scienza e scrittura – è una grande
menzogna. Non volendo (in quanto appartato), Colli finisce per “esprime[re]
molto bene il carattere distruttivo e autodistruttivo della contestazione e del
ribellismo italiano degli anni settanta, che sotto l’apparenza della modernizzazione
e di una radicale rottura col passato riattivarono pulsioni e modi di sentire
appartenenti all’Italia arcaica, oscura e pietrificata in una atemporalità
abissale” (p. 79). Estraneo a un clima pur sempre illuministico nel quale si
muovevano Bodei, Cacciari, Eco e Vattimo, Colli sembra propendere verso
l’esoterismo, riprendendo Nietzsche in un modo diverso dallo stesso Vattimo. E
di Niezsche Colli condivide il ritorno a un passato arcaico. È in questo modo che
lo scarto irrisolvibile del sublime si esprime nel suo pensiero.
Altro anti-accademico è stato Manlio Sgalambro, che ha raggiunto ugualmente
un’ampia popolarità al di fuori dell’ambiente specialistico, in apparente
contrasto con il “tono burbero e arcigno” della sua scrittura. Se quello di
Vattimo è un “pensiero debole”, quello di Salambro, è piuttosto un “pensiero
triste”, nel quale gli “uomini ormai sono cose” e la scienza impotente: il
tutto in un clima da “catastrofe finale” nel quale la filosofia ha senso solo
“per la malinconia che desta”. Secondo Perniola: “Su un punto tuttavia
Sgalambro e Vattimo sembrano concordare, ovvero nel considerare la filosofia
come prossima all’arte” (p. 95), a tutto vantaggio di un contenuto emozionale
rispetto a quello teoretico. E pensiero debole e triste in qualche modo si
riavvicinano. Anche Dio, il baluardo di un pensiero forte, viene declassato e
ricondotto nel mondo: non si tratta però di una visione panteistica per cui Dio
è in tutte le cose: più semplicemente egli è cosa tra le cose, e come esse
“abietto”. Un Dio che distrugge invece di creare: un Dio che “indigna”.
L’estetica della morte di Sgalambro – un’anedonia
ovvero incapacità di provare piacere – sembra leggere il mondo di oggi, come è accaduto per l’altro
inattuale Colli, nonostante il carattere appartato del pensatore, almeno fino a
un certo punto della propria vita.
Il filone del sublime – che
molte pagine occupa nel libro – trova coronamento nell’opera di Giorgio Agamben, di altissimo livello
filosofico ma al contempo con una risonanza mondiale ottenuta solo da un
Pirandello tra gli italiani– e nonostante l’assenza di qualsiasi consolazione
edificante. Come Ortega, Agamben individua una regressione dell’umanità proprio
in quegli aspetti che ne indicherebbero uno sviluppo, quali lo sport e la
pubblicità. E come molti autori dell’estetica del sublime auspica il ritorno a
un mondo rurale caratterizzato da una “storia stazionaria” che egli privilegia
rispetto alla “storia cumulativa”. Ciò recuperando la distinzione di Claude
Lévi-Strauss tra società “fredde” e “calde”: le prime caratterizzate dal rito,
le seconde dal gioco; le prime adulte per la capacità di trasmettersi in tutta
autorevolezza l’eredità del passato, le seconde invece infantili e incapaci al
contrario di liberarsi di quelli che appaiono come i “fantasmi dal passato”. A
differenza di altri autori del sublime, Agamben rivendica la superiorità della
filosofia e lo fa, secondo Perniola, “con una sottigliezza ermeneutica
eccezionale” (p. 128). Quella che Agamben aveva caratterizzato inizialmente
come “infantilizzazione” dell’umanità, viene poi da lui connotata come
“bestializzazione”: una condizione di
“stordimento” che comporta un heideggeriano venir meno del linguaggio,
nonostante l’apparente ipertrofia comunicativa.
Il tragico invece, osserva Perniola, non ha mai avuto grande
cittadinanza nella cultura italiana. Pareyson per esempio, rimprovera la
leggerezza dei suoi allievi, Eco e Vattimo, nuove “anime belle”. È Pareyson stesso ad assumere la sfida del
tragico – in una contesa col pensiero di Jaspers – fin nell’accettazione della presenza
inquietante del male in Dio stesso, un Dio che non si risolve nella completa
identificazione con il bene e con l’essere. La sfida al male assume lo stesso significato
del sublime in Kant (il guerriero che non si spaventa e che, non rifuggendo il
pericolo, si mette all’opera). Ma se in Kant il punto d’arrivo è nella morale,
in Pareyson esso è colto attraverso l’entusiasmo estetico.
Nell’estetica del tragico s’inserisce anche Sergio Givone. Per lui “L’avventura della poesia moderna si
identifica con un movimento di rottura, di emancipazione nei confronti di
qualsiasi identità, e perciò la poesia è più prossima al ‘pensiero tragico’ di
quanto sia la filosofia, che sembra muoversi irrimediabilmente verso la
demitizzazione e la secolarizzazione” (p. 150). Anche Givone – a dire di
Perniola –, pur parlando apparentemente di altro, finisce per dare un quadro più
veritiero della realtà italiana rispetto a chi si preoccupa di starne invece a
ridosso: così l’immaginario della televisione a cui crede la maggioranza degli
italiani non appare più veritiero delle “visioni” di Williame Blake, autore al
quale Givone ha dedicato un magistrale studio.
In questa linea Perniola inserisce anche il Teatro dei sensibili di Guido Ceronetti, un teatro di marionette
la cui attività “clandestina” viene paragonata a quella delle coeve Brigate
Rosse: “La domanda provocatoria che sembra implicita nel Teatro dei Sensibili
potrebbe essere: ‘I brigatisti sanno quello che fanno’ oppure credono di essere
dei rivoluzionari, mentre in realtà sono dei comunicatori senza volto?”. La
tragicità delle Br sta proprio nel diventare l’opposto di quello che credono
(curiosamente, la casa editrice creata da Renato Curcio, osserva Perniola, si
chiama proprio Senbili alle foglie con una probabilmente involontaria
corrispondenza ceronettiana). Comunque, “Per Ceronetti tutte le vite umane sono
tragiche, indipendentemente dal risultato […]” (p. 167).
La riflessione estetica italiana condotta fin qui ha riguardato quattro
categorie fondamentali – bello, ironia, sublime e tragico –, ma tuttavia
non si esaurisce non il tragico stesso.
Perniola ritiene ancora necessario il ricorso alle categorie della sottigliezza e dell’arguzia: qui il conflitto tra gli opposti non risulta risolvibile
con l’annullamento di uno dei termini; il riferimento è a Freud, al quale si
deve lo studio del Witz, il motto di
spirito, che appare come un compromesso tra i termini in conflitto. “L’arguzia
è appunto il modo estetico di pensare una lotta estrema senza farsi coinvolgere
nell’utopia della pace, nel mascheramento dell’ironia e nemmeno nel terrore del
sublime o nelle sfide tragiche” (p. 171). Questa modalità estetica sarebbe
rinvenibile nella sprezzatura di Cristina Campo: per la Campo sarebbe
stato inutile combattere apertamente contro un nemico dalla forza soverchiante;
il suo è “un atteggiamento etico-estetico che implica piglio, disinvoltura,
noncuranza” (p. 171). Una vita e un’opera non si giudicano per la Campo dall’apparenza,
dall’aspetto finale, ma dalla sapienza
della tessitura, come nel caso di un tappeto secondo l’esempio fatto
dall’autrice stessa: da questo lavoro, e lavorìo, deriva la perfezione.
Lungo questa linea, Perniola
inanella i nomi di Giampiero Moretti, Rubina Giorgi e Italo Calvino,
personalità molto differenti tra loro. Della Giorgi, per fare solo un esempio,
sono per Perniola esemplari i versi di apertura di Esercizi 1: “la lingua è un oceano circolare / la mente è tratta in
cerchio / così nasce / così muore / così rinasce” (cit. a p. 178). E così, per
Calvino, le fiabe sono il catalogo dei destini che possono toccare a un essere
umano con infinita possibilità di metamorfosi. Emblematiche sono poi Le lezioni americane di Calvino che,
citato da Perniola (p. 189), afferma in apertura: “Dedicherò la prima
conferenza all’opposizione leggerezza-pesantezza, e sosterrò le ragioni della
leggerezza”. Ma la leggerezza a cui pensa lo scrittore italiano – in attività
come la letteratura e la filosofia che tutto sono fuorché leggere – è appunto
la sottigliezza. Calvino, pur
contrario alle posizioni apocalittiche degli autori del sublime, non fa però
neanche concessioni alla società della comunicazione e dello spettacolo. Si
mantiene elegantemente – possiamo aggiungere – in un’altra dimensione,
L’opposizione viene affrontata da Roberto
Calasso ricorrendo invece a due modelli estetici del mondo greco. Il primo,
spartano e poi platonico, pensa al bello come ordine e armonia; il secondo,
soprattutto ateniese, individua nel mito un conflitto insanabile: le nozze di Cadmo
e Armonia, che sembrano il maggior punto di avvicinamento tra il divino e
l’umano sono anche premessa della rovina.
L’ultima risposta che Perniola individua nell’estetica italiana è quella
dell’acutezza. Essa – che ovviamente
non difetta in varia misura negli autori fin qui trattati – diventa emblematica
in Gillo Dorfles, “una figura
eccezionale, un sorprendente connubio di austerità e frivolezza, di erudizione
e mondanità, di spirito critico e di indulgenza, di rigore filologico e
illimitata curiosità intellettuale attenta anche alle manifestazioni più futili
della società contemporanea, di humour e conoscenze tecniche […]: a tutto ciò
si aggiunge un’ottica cosmopolita che non si limita alle culture occidentali
[…]” (p. 203). Intellettuale a tutto tondo, dunque, filosofo, artista e critico
d’arte, Dorfles è l’anello di congiunzione che unisce la cultura umanistica che
ha preceduto il Sessantotto con l’epoca attuale. Sostenitore della grandezza di
Hegel, in chiave diversa ne recupera un aspetto fondamentale già nel titolo di
due suoi titoli celeberrimi: Il divenire
delle arti (1959) e Il divenire della
critica (1976). Servendosi della sociologia e della psicoanalisi, della
semiotica e della cronaca artistica e mondana, dell’architettura e
dell’ecologia e passando dalla filosofia alla moda, Dorfles cerca più di capire
che condannare, seguendo il precetto di Epitteto: “Usa unicamente l’impulso e la
ripulsa, però in modo leggero, con riserve e senza trasporto”.
Ampiezza di interessi ritroviamo infine in Gianni Carchia: estetica antropologica, orfismo, culture
extraeuropee, radicalismo politico e controcultura in stile anni Settanta. Carchia
ha ripercorso le estetiche del sublime e del tragico riconducendole a radici
stoiche: “Carchia intende riportare il sublime al suo significato originario,
che individua non nel pensiero tragico, ma in Pirandello” (p. 210),
tralasciandone invece l’impostazione kantiana. Infine, vale la pena ricordarlo qui,
Carchia parla del “filosofo come artista”. Egli però non vuole porre sullo
stesso stesso piano arte e filosofia; piuttosto, partendo da un giudizio
negativo sugli specialisti di estetica, vuol parlare, più che di una “filosofia
dell’arte”, di un’“arte della
filosofia”. Il vero artista oggi sarebbe dunque il filosofo che lega e collega. Anche Nietzsche parlava del filosofo come artista: al
cospetto, nota Perniola, quello di Carchia vuole però più modestamente essere
un artigiano.
Perniola conclude il suo ampio, colto ma anche discorsivo percorso con
un riferimento alla propria concezione etico-estetica di un cattolicesimo
“capace di essere recepito da altre culture senza sollevare troppe diffidenze e
ostilità”, realizzando davvero la propria universalità, come dovrebbe essere
stando al significato stesso della parola che designa questa Chiesa. Perniola accosta la sua visione a quella esposta
da Andrew Greeley in The Catholic
Imagination del 2000: “Per Greeley, i cattolici vivono in un mondo
incantato: i rituali, le arti, la musica, l’architettura , le devozioni, le
storie creano un clima estetico che è parte essenziale dell’immaginazione
cattolica e le conferisce un carattere metaforico” (p. 233). Il cattolicesimo
ufficiale non sempre è stato consapevole di questo potenziale e la stessa
immaginazione cattolica in realtà deve andare oltre la sola e semplice professione
di fede.
Questo universalismo ha dunque un significato
culturale e politico. Ciò ci dà la possibilità, in conclusione, di riannodare i
fili di questo veloce “sunto” e di rimarcare come l’estetica sia andata,
insieme all’arte, oltre il mondo dell’arte: “Non bisogna farsi arruolare in
nessun conflitto tra le civiltà, bensì combattere per salvare qualcosa della
saggezza dall’oscurantismo e dall’infantilismo dilagante. Per lo scrivente [Perniola],
la Chiesa cattolica può farlo meglio degli Stati e delle organizzazioni sovranazionali,
a patto che sappia liberarsi dal dogmatismo ideologico e dai pregiudizi. In tal
modo egli ritiene di interpretare e rinnovare la tradizione etico-estetica
italiana che, affondando le sue radici nell’universalismo antico, costituisce
il miglior antidoto alle chiusure nazionalistiche, neoetniche e strapaesane” (pp.
234-235). Al di là della fiducia negli sviluppi del cattolicesimo, sono queste
parole, oggi, di grande forza.
[1], Il Mulino, Bologna 1997.
[2] Ivi, 2011.
[3] Sottotitolo: Trentadue autori che hanno fatto la storia
degli ultimi cinquant’anni, Bompiani, Milano 2017.r
[4] Nicola Abbagnano, Estetica in Dizionario di Filosofia, seconda edizione riveduta e accresciuta, Utet,
Torino, 1971, 1984, p. 354.
[5] L’estetica contemporanea. Un panorama globale cit. pp. 9-10. Sembra
utile riportare anche almeno una parte della citazione omessa nel testo:
l’Estetica “Ha poi esaminato questioni religiose e teologiche di portata storica,
ha indagato le proprie affinità e divergenze con la morale e con l’economia, ha
stabilito relazioni con tutte le altre discipline filosofiche, con le scienze
umane e perfino con quelle naturali, fisiche e matematiche. Inoltre ha
oltrepassato le frontiere dell’occidente […]” (p. 99.)
[6] Perniola, Estetica italiana contemporanea cit., p. 7. I riferimenti alle
pagine di questo libro in seguito saranno inseriti nel testo, tra parentesi.
Dobbiamo purtroppo rinunciare a citare le opere che Perniola analizza puntualmente:
il suo è un libro di libri con il quale un breve saggio non può gareggiare.
| LIBRO CINQUANTACINQUESIMO NUMERO MONOGRAFICO DEDICATO A MARIO PERNIOLA (1941-2018) EDUARDO ALAMARO |
L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La poetry kitchen
RispondiEliminaPenso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno.
I testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop o poetry kitchen. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere.
Così è se vi piace.
Grazie per il contributo
EliminaMah. Io credo che anche se la poesia pop nel suo facere riesce non dico a dare ma anche solo a far intravedere il non orientamento complessivo del mondo, essa finirà comunque per spingere necessariamente, è nella natura dell'uomo, alla ricerca di un sentiero meno sassoso ed impervio.
EliminaTesto magistrale.
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