domenica 6 marzo 2022

BIAMONTI E KUBRICK

 

 di

FRANCESCO IMPROTA      

         



Alla base della narrativa di Francesco Biamonti c’è lo sguardo, nel senso che nei suoi romanzi le cose sono colte sempre nella loro visibilità ed i personaggi sono legati gli uni agli altri e agli oggetti circostanti attraverso gli sguardi ed è ciò che fa di lui uno scrittore decisamente cinematografico. Fino a non molto tempo fa ero fermamente convinto che il regista più vicino a Biamonti, spiritualmente e culturalmente, fosse Bresson; entrambi, infatti, cercano di sottrarsi alla rappresentazione attraverso la frammentazione, riducendo, cioè, all’essenziale i contrasti ed affidando alla concisione e all’ellissi la forza d’impatto con il lettore o con lo spettatore. Dopo aver letto, però, il bellissimo saggio di Sandro Bernardi (“Kubrick e il cinema come arte del visibile” Pratiche editrice) e dopo aver io stesso organizzato una rassegna di film di Kubrick ho avvertito la tentazione, rischiosa ma intrigante, di accostare lo scrittore di San Biagio della Cima al regista newyorkese, certo non sul piano dei contenuti, dove le differenze sono vistose e probabilmente incolmabili, ma sul piano del carattere, del comportamento e dello stile. 

 Contemporanei e quasi coetanei (Biamonti era più vecchio di soli 4 mesi) hanno vissuto e testimoniato la crisi di questi ultimi decenni, attraverso opere d’eccezionale bellezza che hanno dato lustro e spessore al cinema e alla letteratura contemporanee. Le analogie sono rintracciabili, innanzitutto, nel modo di vivere: lontani dalla folla entrambi, chiusi in un’aristocratica e severa solitudine, nel tentativo di perseguire con ferocia la loro purezza umana ed artistica: relegato nel suo castello di Sant Adams, lontano da sguardi indiscreti Kubrick; appollaiato sulle colline dell’entroterra intemelio, fra gli ulivi argentati e le profumate mimose, Biamonti. Le uniche sortite erano, per Kubrick (morto nel 1999) le passeggiate in automobile con il fido autista che non doveva mai superare la velocità di quaranta miglia, e per Biamonti quasi fino alla fine, avvenuta l’anno scorso, i vagabondaggi notturni sulla costa, a dispetto della grave malattia che ne aveva intaccato la fibra robusta, in cerca di volti, di situazioni e di esperienze da trasportare nei suoi romanzi. Anche a Francesco non piaceva la velocità, probabilmente perché gli impediva di guardarsi intorno e di assaporare degnamente la vita o di percepire con la necessaria chiarezza la realtà, e quando un giorno, sull’Autostrada dei Fiori al volante della mia autovettura, avevo pigiato il piede sull’acceleratore, Francesco, seduto accanto a me, con un accento tra il severo e il sarcastico, mi disse: “Non sarai mica diventato un futurista?” Entrambi, perfezionisti fino alla mania, sono tornati più volte sulle loro opere correggendo, tagliando, aggiungendo scene, immagini, semplici parole; nel suo ultimo film “Eyes wide shut” Kubrick ha fatto ripetere, ad un attore del calibro di Tom Cruise,  novantasei volte un’azione di una semplicità disarmante (si trattava di chiudere una porta) e Biamonti riscriveva decine di volte la stessa pagina nel tentativo, sempre coronato da successo, di raggiungere una scrittura scarna, prosciugata e pregnante come non mai, una scrittura “liricamente arida” – mi si passi l’ossimoro che è del resto la figura dominante nei film di Kubrick. Il cinema di Kubrick, infatti, non diversamente da quello di Ejzenstejn, di Pasolini e di Godard, poggia sulla forza della contraddizione: i suoi film sono contrassegnati, al tempo stesso, da uno slittamento in avanti, verso il futuro, il nuovo, e da un altrettanto significativo salto all’indietro, al passato, alle origini del cinema nel tentativo, in questo caso, di recuperare le caratteristiche peculiari della fotografia e della pittura,  da cui il cinema discende in linea diretta, con buona pace di coloro che ne hanno fatto “un genere letterario”, dando importanza esclusivamente alla sceneggiatura; si determina, pertanto, nei suoi film una discrasia fra le immagini e il racconto, per cui le immagini spesso sembrano contraddire il discorso che  pure a loro  è affidato; fuoriescono, cioè, dal racconto, acquistando una loro piena autonomia ed in questo caso si può dire, citando Nietzche, che “il particolare oscura l’insieme e cresce a sue spese”. Nasce un contrasto tra la significazione che è racconto e la visione che è percezione, tra ciò che le immagini mostrano e ciò che esse significano. Si assiste ad un impoverimento della significazione, e quindi del racconto, a tutto vantaggio della visibilità, e quindi della percezione, come sostiene acutamente Sandro Bernardi nel suo bellissimo saggio su Kubrick. I film di Kubrick - come quelli di tutti i registi più grandi - “non mostrano immagini per raccontare storie ma raccontano storie per mostrare immagini”; la storia è il mezzo non il fine, non è un caso che tutti i movimenti della m.d.p. (panoramiche, carrelli  a precedere, zoom, carrelli indietro o laterali etc.) tendono a forzare la scrittura cinematografica, svuotando l’enunciato e limitandosi ad istituire e a formalizzare uno spazio ed un tempo, cioè le coordinate fondamentali di qualsiasi forma di espressione e di comunicazione. Sono movimenti oserei dire immobili (ritorna la figura retorica dell’ossimoro) e mirano a creare uno spazio non diegetico ma iconico, non funzionale al racconto ma chiuso, isolato e legato nell’autorappresentazione, come in un quadro o in una fotografia. Gli stessi primi piani non s’inseriscono, integrandosi, in precise sequenze narrative ma vivono da soli metonimicamente, meglio ancora per sineddoche, sono parti che rappresentano il tutto. Per quanto riguarda il tempo va detto che in Kubrick il tempo si allarga a dismisura, si moltiplica, nel senso che nei suoi film si assiste alla coesistenza di passato, presente e futuro e talvolta il tempo si materializza, diventando addirittura visibile, come in “Rapina a mano armata”, dove il tempo ritorna continuamente su se stesso, si contrae e si sfilaccia, fino a diventare il vero protagonista della storia. Anche in Biamonti prevale la percezione sul racconto, non a caso i suoi modelli sono Merleau Ponty e l’ecole du regard, ed il tempo, come  abbiamo visto in Kubrick, si dilata ed acquista molteplici valenze in quanto è filtrato attraverso la coscienza e soprattutto la memoria dell’autore e dei suoi straordinari personaggi, legati alla terra d’origine eppure sempre pronti a viaggiare, incapaci, come sono, di mettere radici perché il mondo frana irrimediabilmente e non offre approdi o ancoraggi possibili; ne consegue che il paesaggio, vero protagonista dei romanzi di Biamonti, pur conservando tutta la sua concretezza, non è la cornice materiale delle vicende raccontate ma è un paesaggio dell’anima, materiato d’angosce, di ossessioni, di labili e confuse speranze. Lo spazio, quindi non diversamente che in Kubrick, è iconico ed autoreferenziale, scarsamente funzionale alla storia, sempre esile e povera di casi, ma carico di valenze simboliche e di suggestioni non comuni. Straordinario mago della luce, come tutti coloro, o quasi, che fanno dello sguardo lo strumento privilegiato di percezione e di conoscenza, con la grazia di uno stile che più che un dono naturale è una severa conquista, Biamonti descrive i cieli bassi della Liguria, il delirio del mare, d’ascendenza montaliana, la luce del giorno che rotola a blocchi sulle rocce  e sulle fasce, i tronchi contorti, piegati/piagati dal vento degli ulivi e il profumo  penetrante delle mimose o della lavanda con l’intensità e la forza rappresentativa di Cezanne o, nell’ultimo romanzo - ambientato quasi tutto di sera - di George de la Tour. Anche il tempo, come abbiamo accennato prima, non è scandito dal trascorrere delle ore e neppure dal battito del cuore, esso è filtrato dalla memoria, da emozioni, in essa depositate, che si contraggono o si dilatano a seconda dei casi, ed infatti, spesso Biamonti privilegia i tempi morti, quelli che favoriscono i soprassalti della memoria e le intermittenze del cuore, eppure talvolta il tempo si materializza e diventa, quindi, visibile nella luce che al tramonto sanguina come una ferita, prima di dileguare dietro la montagna, o nel verso rauco dei gabbiani, che “intonacati d’aria  andavano al mare come ad un letto di pace”.

Entrambi, infine, sono riusciti a frantumare con un pessimismo sempre più raggelante mode, miti ed illusioni, “ le magnifiche sorti e progressive”, preannunciando con largo anticipo la deriva del secolo ed il crepuscolo della civiltà occidentale; si pensi alla visione negativa del mondo e degli uomini che traspare da “ Full metal jacket”, il film per molti versi più emblematico di Kubrick, e al nichilismo di Biamonti, che discende in linea diretta da Montale, con la sola differenza che nel poeta genovese s’intravede un’oltranza o, meglio ancora, la probabilità improbabile del “miracolo” (Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:”, in Biamonti, invece, non c’è nessuna possibilità di salvezza o di riscatto. “Anche il mare –al quale egli aveva affidato le residue speranze di redenzione- non riesce più a purificare i cuori”, come si legge in “Attesa sul mare”. In un’intervista, rilasciata nell’immediata vigilia del nuovo millennio, ad una precisa domanda sul futuro del mondo egli ha testualmente risposto: “Il secolo muore nel disonore e nella vergogna ed il futuro non sarà certo migliore. È tutto un mondo, infatti, edificato sulle rovine e sui delitti”. 

Ringrazio Francesco Improta per avermi concesso di ripubblicare questo pezzo originariamente apparso in      

  http://www.bartolomeodimonaco.it/parliamone                                 

                                                                                        

3 commenti:

  1. Testo illuminante e audace al tempo stesso giacché non è facile mettere in parallelo due autori così diversi ma comunque legati in maniera quasi ossessiva alla forza evocativa e rivelatrice della visione

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  2. Ringrazio Enzo Rega non solo per aver dato ospitalità a questo mio articolo ma anche e soprattutto per aver dato aria a uno scritto che risale a venti anni fa e che era stato pubblicato su www.bartolomeodimonaco.it nel 2008. Ringrazio, inoltre, Davide Auricchio per le belle parole adoperate e per aver sottolineato quella temeraria audacia che io stesso per primo avevo riconosciuto.

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  3. Confronto interessantissimo fra due giganti riletto in non maniera comprensibilissima per i profani

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