di
FRANCESCO IMPROTA
Contemporanei e quasi coetanei (Biamonti era
più vecchio di soli 4 mesi) hanno vissuto e testimoniato la crisi di questi
ultimi decenni, attraverso opere d’eccezionale bellezza che hanno dato lustro e
spessore al cinema e alla letteratura contemporanee. Le analogie sono
rintracciabili, innanzitutto, nel modo di vivere: lontani dalla folla entrambi,
chiusi in un’aristocratica e severa solitudine, nel tentativo di perseguire con
ferocia la loro purezza umana ed artistica: relegato nel suo castello di Sant
Adams, lontano da sguardi indiscreti Kubrick; appollaiato sulle colline
dell’entroterra intemelio, fra gli ulivi argentati e le profumate mimose,
Biamonti. Le uniche sortite erano, per Kubrick (morto nel 1999) le passeggiate
in automobile con il fido autista che non doveva mai superare la velocità di quaranta
miglia, e per Biamonti quasi fino alla fine, avvenuta l’anno scorso, i
vagabondaggi notturni sulla costa, a dispetto della grave malattia che ne aveva
intaccato la fibra robusta, in cerca di volti, di situazioni e di esperienze da
trasportare nei suoi romanzi. Anche a Francesco non piaceva la velocità,
probabilmente perché gli impediva di guardarsi intorno e di assaporare
degnamente la vita o di percepire con la necessaria chiarezza la realtà, e
quando un giorno, sull’Autostrada dei Fiori al volante della mia autovettura,
avevo pigiato il piede sull’acceleratore, Francesco, seduto accanto a me, con
un accento tra il severo e il sarcastico, mi disse: “Non sarai mica diventato
un futurista?” Entrambi, perfezionisti fino alla mania, sono tornati più volte
sulle loro opere correggendo, tagliando, aggiungendo scene, immagini, semplici
parole; nel suo ultimo film “Eyes wide shut” Kubrick ha fatto ripetere, ad un
attore del calibro di Tom Cruise, novantasei
volte un’azione di una semplicità disarmante (si trattava di chiudere una
porta) e Biamonti riscriveva decine di volte la stessa pagina nel tentativo,
sempre coronato da successo, di raggiungere una scrittura scarna, prosciugata e
pregnante come non mai, una scrittura “liricamente arida” – mi si passi
l’ossimoro che è del resto la figura dominante nei film di Kubrick. Il cinema
di Kubrick, infatti, non diversamente da quello di Ejzenstejn, di Pasolini e di
Godard, poggia sulla forza della contraddizione: i suoi film sono contrassegnati,
al tempo stesso, da uno slittamento in avanti, verso il futuro, il nuovo, e da un
altrettanto significativo salto all’indietro, al passato, alle origini del
cinema nel tentativo, in questo caso, di recuperare le caratteristiche
peculiari della fotografia e della pittura, da cui il cinema discende in linea diretta,
con buona pace di coloro che ne hanno fatto “un genere letterario”, dando
importanza esclusivamente alla sceneggiatura; si determina, pertanto, nei suoi
film una discrasia fra le immagini e il racconto, per cui le immagini spesso sembrano
contraddire il discorso che pure a loro è affidato; fuoriescono, cioè, dal racconto,
acquistando una loro piena autonomia ed in questo caso si può dire, citando
Nietzche, che “il particolare oscura l’insieme e cresce a sue spese”. Nasce un
contrasto tra la significazione che è racconto e la visione che è percezione,
tra ciò che le immagini mostrano e ciò che esse significano. Si assiste ad un impoverimento
della significazione, e quindi del racconto, a tutto vantaggio della visibilità,
e quindi della percezione, come sostiene acutamente Sandro Bernardi nel suo
bellissimo saggio su Kubrick. I film di Kubrick - come quelli di tutti i registi
più grandi - “non mostrano immagini per raccontare storie ma raccontano storie
per mostrare immagini”; la storia è il mezzo non il fine, non è un caso che
tutti i movimenti della m.d.p. (panoramiche, carrelli a precedere, zoom, carrelli indietro o
laterali etc.) tendono a forzare la scrittura cinematografica, svuotando
l’enunciato e limitandosi ad istituire e a formalizzare uno spazio ed un tempo,
cioè le coordinate fondamentali di qualsiasi forma di espressione e di
comunicazione. Sono movimenti oserei dire immobili (ritorna la figura retorica
dell’ossimoro) e mirano a creare uno spazio non diegetico ma iconico, non
funzionale al racconto ma chiuso, isolato e legato nell’autorappresentazione,
come in un quadro o in una fotografia. Gli stessi primi piani non s’inseriscono,
integrandosi, in precise sequenze narrative ma vivono da soli metonimicamente,
meglio ancora per sineddoche, sono parti che rappresentano il tutto. Per quanto
riguarda il tempo va detto che in Kubrick il tempo si allarga a dismisura, si moltiplica,
nel senso che nei suoi film si assiste alla coesistenza di passato, presente e
futuro e talvolta il tempo si materializza, diventando addirittura visibile,
come in “Rapina a mano armata”, dove il tempo ritorna continuamente su se
stesso, si contrae e si sfilaccia, fino a diventare il vero protagonista della
storia. Anche in Biamonti prevale la percezione sul racconto, non a caso i suoi
modelli sono Merleau Ponty e l’ecole du regard, ed il tempo, come abbiamo visto in Kubrick, si dilata ed acquista
molteplici valenze in quanto è filtrato attraverso la coscienza e soprattutto
la memoria dell’autore e dei suoi straordinari personaggi, legati alla terra
d’origine eppure sempre pronti a viaggiare, incapaci, come sono, di mettere
radici perché il mondo frana irrimediabilmente e non offre approdi o ancoraggi
possibili; ne consegue che il paesaggio, vero protagonista dei romanzi di
Biamonti, pur conservando tutta la sua concretezza, non è la cornice materiale
delle vicende raccontate ma è un paesaggio dell’anima, materiato d’angosce, di ossessioni,
di labili e confuse speranze. Lo spazio, quindi non diversamente che in
Kubrick, è iconico ed autoreferenziale, scarsamente funzionale alla storia,
sempre esile e povera di casi, ma carico di valenze simboliche e di suggestioni
non comuni. Straordinario mago della luce, come tutti coloro, o quasi, che
fanno dello sguardo lo strumento privilegiato di percezione e di conoscenza,
con la grazia di uno stile che più che un dono naturale è una severa conquista,
Biamonti descrive i cieli bassi della Liguria, il delirio del mare,
d’ascendenza montaliana, la luce del giorno che rotola a blocchi sulle rocce e sulle fasce, i tronchi contorti,
piegati/piagati dal vento degli ulivi e il profumo penetrante delle mimose o della lavanda con
l’intensità e la forza rappresentativa di Cezanne o, nell’ultimo romanzo - ambientato
quasi tutto di sera - di George de la Tour. Anche il tempo, come abbiamo
accennato prima, non è scandito dal trascorrere delle ore e neppure dal battito
del cuore, esso è filtrato dalla memoria, da emozioni, in essa depositate, che
si contraggono o si dilatano a seconda dei casi, ed infatti, spesso Biamonti
privilegia i tempi morti, quelli che favoriscono i soprassalti della memoria e
le intermittenze del cuore, eppure talvolta il tempo si materializza e diventa,
quindi, visibile nella luce che al tramonto sanguina come una ferita, prima di
dileguare dietro la montagna, o nel verso rauco dei gabbiani, che “intonacati
d’aria andavano al mare come ad un letto
di pace”.
Entrambi, infine, sono riusciti a frantumare con un pessimismo sempre più raggelante mode, miti ed illusioni, “ le magnifiche sorti e progressive”, preannunciando con largo anticipo la deriva del secolo ed il crepuscolo della civiltà occidentale; si pensi alla visione negativa del mondo e degli uomini che traspare da “ Full metal jacket”, il film per molti versi più emblematico di Kubrick, e al nichilismo di Biamonti, che discende in linea diretta da Montale, con la sola differenza che nel poeta genovese s’intravede un’oltranza o, meglio ancora, la probabilità improbabile del “miracolo” (Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:”, in Biamonti, invece, non c’è nessuna possibilità di salvezza o di riscatto. “Anche il mare –al quale egli aveva affidato le residue speranze di redenzione- non riesce più a purificare i cuori”, come si legge in “Attesa sul mare”. In un’intervista, rilasciata nell’immediata vigilia del nuovo millennio, ad una precisa domanda sul futuro del mondo egli ha testualmente risposto: “Il secolo muore nel disonore e nella vergogna ed il futuro non sarà certo migliore. È tutto un mondo, infatti, edificato sulle rovine e sui delitti”.
Ringrazio Francesco Improta per avermi concesso di ripubblicare questo pezzo originariamente apparso in
http://www.bartolomeodimonaco.it/parliamone
Testo illuminante e audace al tempo stesso giacché non è facile mettere in parallelo due autori così diversi ma comunque legati in maniera quasi ossessiva alla forza evocativa e rivelatrice della visione
RispondiEliminaRingrazio Enzo Rega non solo per aver dato ospitalità a questo mio articolo ma anche e soprattutto per aver dato aria a uno scritto che risale a venti anni fa e che era stato pubblicato su www.bartolomeodimonaco.it nel 2008. Ringrazio, inoltre, Davide Auricchio per le belle parole adoperate e per aver sottolineato quella temeraria audacia che io stesso per primo avevo riconosciuto.
RispondiEliminaConfronto interessantissimo fra due giganti riletto in non maniera comprensibilissima per i profani
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