lunedì 27 giugno 2022

Raffaele La Capria, "Il fallimento della consapevolezza", 2018

 di

Enzo Rega


Ripropongo una mia recensione di una raccolta di articoli di Raffaele La Capria apparsa ne  L'Indice dei libri nell'ottobre 2019






La finzione di una finzione

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di Enzo Rega

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Raffaele La Capria

IL FALLIMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA

pp. 120, € 18,

Mondadori, Milano 2018





“Io sono nato nel 1922 a Napoli, in una città che ha molti volti e che recita sé stessa; dove è ambigua, come in ogni recita, la linea di demarcazione tra vero e falso”. Così si apre il primo degli interventi di questo volume che raccoglie vari scritti disseminati nel tempo (peccato che l’editore non ne riporti la data e l’indicazione dell’uscita originaria) e nei quali La Capria fa i conti con la propria scrittura e con la propria vita, a partire dalla falsa partenza in epoca fascista. L’ancora di salvezza è allora la letteratura, filtrata da un critico come Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo e che, al di là delle sue idiosincrasie personali, dà gli strumenti per accedere anche agli autori che lui non ama: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Proust, Joyce, Musil. Ma soprattutto insegna che attraverso la letteratura si intraprende un cammino verso la libertà. In quegli anni si assiste anche a un vivace fermento nella lingua letteraria: un italiano penetrato dai dialetti, misto di prosa e versi, intriso di dannunzianesimo, o ancora un italiano ermetico. Ma lo stesso italiano regionale (Brancati, Pratolini, Rea, Pavese, Gadda), inviso al regime fascista, attinge un’universalità – dichiara La Capria – che non fa sfigurare la nostra letteratura nel contesto europeo.

   Ma dall’Europa è d’obbligo il ritorno alla sua città per riflettere su quel tempo che a Napoli sembra avvitato su se stesso, che è il tema de L’armonia perduta pubblicata nel 1986, venticinque anni dopo Ferito a morte, il suo libro più celebre. Annota La Capria: “Ci sono città, soprattutto le città del Mediterraneo, il cui processo storico si blocca e in qualche modo sopravvivono a sé stesse. Parlo non solo di Napoli, ma anche di Venezia, Palermo, Costantinopoli, Alessandria, città che hanno voltato le spalle alla modernità e sono perciò molto differenti da Parigi, Londra, New York, dove ogni momento storico ha avuto giorno per giorno il suo naturale sviluppo”. Chi vive in queste città deve dunque farsi carico individualmente di portare avanti lo sviluppo per “restituire alla città una continuità con il presente”. Il blocco storico di Napoli viene individuato nell’esito negativo della Rivoluzione napoletana del 1799. Questa situazione di immobilità era già intuita in Ferito a morte che si apre in una sorta di dormiveglia. Ma l’espressione “armonia perduta”, continua lo scrittore, può trarre in inganno perché “fa pensare alla nostalgia per qualche cosa che c’era e ora non c’è più”. Non è così, ma questa formula serve a comprendere la napoletanità: “fu sempre vagheggiata l’idea di una Napoli ‘dove sorridere volle il creato’; la Napoli della gouache, la Napoli delle canzoni appunto, la Napoli di quest’Armonia vagheggiata, sognata, cantata”. È il tentativo di sanare la ferita del 1799 dunque a creare il mito dell’armonia perduta: “Insomma la napoletanità che è venuta fuori da questa recita è la finzione di una finzione e su questa è fondata”. 

   Un ritratto amaro e caustico di una città e una critica del cliché nel quale è imprigionata. Ma in un intervento successivo, La Capria chiarisce il proprio ruolo: “La funzione dello scrittore è sempre quella di porsi come critico della società cui appartiene, non in senso negativo, ma come portatore di una conflittualità interna alla società che dovrebbe essere vivificante e creativa e servire a migliorarla”. Anche se la voce degli intellettuali – ammette – suona sempre più fioca: non ci sono più maestri come Croce ed Ernesto Rossi, Moravia e Pasolini. Pasolini che “per primo ha avvertito i segnali di una catastrofe ambientale e antropologica, visibile in modo violento soprattutto nelle periferie delle città”, una devastazione che riguarda anche la città di La Capria: la napoletanità è terminata nel 1945, “ed è stata sempre più alterata dall’avvento di una modernità male assimilata e dal consumismo che ha devastato l’Italia”. Quindi, da un lato Napoli ci appare immobile, dall’altra pure toccata dai guasti di una malintesa modernità.  

   La città però può uscire dalla sua identità recitata riannodandosi agli aspetti migliori della civiltà occidentale, e “normalizzarsi”. Ciò può essere possibile perché Napoli ha sempre avuto una doppia identità: locale ed europea. Si possono dunque stornare gli occhi dal “piccolo cerchio della nostra piccola identità” per volgerli “verso spazi più aperti”.

   Per questo La Capria non tollera l’espressione “letteratura napoletana” anche perché chi scrive aspira a un respiro più ampio, benché le proprie radici diano una connotazione particolare alla scrittura. Così Ferito a morte è scritto in una lingua intraducibile e composita: “La mia lingua è un italiano costruito sulla struttura sintattica del dialetto napoletano. È come se ci fosse dentro l’anima, lo scheletro e la forma della frase napoletana. Le parole invece sono tutte italiane. Il risultato è una fonia che si sente come un italiano parlato da un napoletano. Un italiano cantato, con l’accento mediterraneo”.




"L'Indice dei libri del mese", n. 10 - ottobre 2019



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