DI
ENZO REGA
1.
Per Giorgio Caproni, che recensisce una raccolta cronologicamente (e non
solo cronologicamente) centrale del poeta messinese, tutta l’opera di Bartolo
Cattafi aveva il sapore e il colore di un “giornale di bordo”, piena com’è di
vocaboli geografici e nautici che però, precisa il poeta-critico toscano,
appaiono ben presto magici: il “viaggio-mito” di Cattafi, dunque, non si compie
per il solo piacere di viaggiare e di annotare, ma esso, come i vocaboli usati,
si fa plastica traslazione “d’un
altro viaggio invisibile compiuto molto più addentro del puro visibile […]”.[1] Ma Caproni, già a
proposito di una precedente raccolta cumulativa di cinque anni prima, citando
Greenwich (Partenza da Greenwich è il
titolo di un libro precedente recuperato ora come sezione) sottolineava la
“capacità di riprendere il paesaggio ‘visto’ con tal precisione di vocaboli e
immagini, da restituircelo non come memoria, ma proprio come espressione viva
del tremore esistenziale del poeta e, di conseguenza, nostro […]”.[2] Se non si tratta di
memoria, ma di un diario di viaggio che resoconta la vita laddove essa si
svolge, allora trova giustificazione, ci pare, usare per la poesia di Cattafi
il termine promemoria, cioè come di
qualcosa che si raccolga oggi a futura memoria, di una memoria che forse, come
si vedrà, finirà per cercare però anche la propria auto-dissoluzione.
Se assumiamo in tutta la sua portata tale caratterizzazione della poesia
di Cattafi proposta da Caproni, tutta la poesia del siciliano appare come un
viaggio anche laddove, come tema, esso vada affievolendosi per riemergere in
tutta la sua portata proprio alla fine: come se la meta finale, la morte che si profila, il porto dell’ultimo
approdo richiamasse in causa il cammino fino allora compiuto.
2.
Rovesciando la prospettiva cronologica, vogliamo allora sottolineare la
portata del tema proprio nelle ultime raccolte. Qui, nel pieno della malattia
che lo stroncherà, anche la tanatologia cattafiana, pur nella maggior
astrazione e rarefazione dell’ultima sua modalità poetica che la critica ha
variamente sottolineate, acquista una pregnanza biologica concreta e non più
meramente teorica, e l’heiddeggeriano essere-per-la-morte
si definisce definitivamente (se così si può dire). Emblematico è l’ultimo
testo de L’allodola ottobrina
intitolato Alla mia ombra, che
Stefano Prandi rintraccia come “calco speculare” del Peter Schlemil di Chamisso, però “non privo di affinità con
Caproni”,[3] dal quale siamo partiti:
“Qualcuno ti cancelli / a mia immagine e somiglianza / ombra scompagnata / che
ancora scivoli / vacillante sui muri / sperduta nelle stanze”.[4]
Il senso dell’inevitabile morte si palesa in Cattafi fin dall’inizio,
tanto che la vita stessa ne appare in fondo solo come un’anticamera. Valga lo
stesso titolo d’una composizione che posta all’incirca all’inizio de Le mosche del meriggio, appunto Nell’atrio, in attesa, e questi versi:
“[…] ignoto è il regno / alba e attesa, crepuscolo di nubi dove Dio / s’annida,
come un colombo gutturale. Oscuro è il regno, ospite nell’atrio / mano incerta
e straniera stacca al vento / la lampada incostante […]”.[5]
E
così, se dall’altezza di queste prime poesie, composte ancora nell’atmosfera
ermetica e d’un analogismo che volentieri recupera il correlativo oggettivo
montaliano, ci spostiamo più avanti, al tempo della svolta (e della “perdita”
cattafiana come direbbe Dante Maffia), e
cioè al capolavoro del 1954 rappresentato da L’osso, l’anima con la scarnificazione ed essenzializzazione del
linguaggio poetico, ritroviamo ancora tracce della tanatopoetica che stiamo
sbrigativamente delineando: “Un battito d’ali su per le vaste / pareti della
memoria non ci sottrae / all’ombre che ci seguono […]”.[6]
Neanche la memoria dunque, pur recuperando lacerti di vissuto, può alla
fine sottrarre al destino inevitabile, laddove il canto, il canto poetico
stesso, sono cosa d’un attimo (sempre Heidegger diceva che in fondo “essere
presenti significa tenersi fermi nel nulla”). È quanto ci dice l’immagine della
“allodola ottobrina” nella raccolta omonima del 1979, l’ultima che Cattafi
abbia in qualche modo definito in vita, prima della postuma Chiromanzia d’inverno: “S’alzò in volo e
canto invece / l’allodola ottobrina /
prima che giungesse concentrato / il
piombo undici dieci”.[7]
Che quella caduta sia la fine inevitabile del volo, o comunque d’ogni
percorso che si delinei nella finitudine della dimensione temporale, è
testimoniato dalla considerazione d’insieme di due testi dell’ultima fase,
anche se nel primo l’atmosfera sembra stemperarsi. Così in Cammino,[8] primo testo de L’allodola, leggiamo:
Tu che mi scorri accanto
come un’aquila fedele nel cammino
di volta in volta raddrizzi paesaggi
storte visioni
alle cose imponi
una dolce chiarezza
e l’enigma è sciolto
tutto in un filo
il cammino allungato.
E nel testo
immediatamente successivo, Forze:
Le linee che da qui scattano
da ogni passo
e serpeggiando scompaiono
forze del mondo oltre la curva
giunte al paio d’arrivo
(ciascuna ha il suo)
Intorno gli s’attorcono
E fanno fiori e frutti
Buttano semi
Melograne d’autunno.
3.
Queste linee, per Cattafi, sono partite dal punto zero di Greenwich,
nella fase vitalistica e materica della sua poesia, quando, per dirla con
Raboni, prevaleva ancora la “figuratività” rispetto alla più astratta
“figuralità” successiva: lo stesso tema del viaggio, strettamente connesso a
luoghi concreti nella prima fase, successivamente una “diversa, disincarnata
incarnazione”.[9]
Ma, appunto, ritorniamo a questa prima fase, laddove i luoghi, quelli siciliani
delle origini o gli altri attinti in una fame cosmopolitica e in una centrifuga
forza sradicante, sono centrali nella loro concreta individuazione.
L’origine e il distacco sono individuabili fin dall’inizio, se L’agave, ricompreso ne Le mosche del meriggio, così esorta:
Abbandona la sabbia siciliana, la musica e
il miele
degli Arabi e dei Greci,
rompi i dolci legami, questo torpido
latte delle radiche,
discendi in mare regina sonnolenta
verde bestia con braccia di dolore
come chi è pronto al varco; nelle grandi
città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto
carovane camminano in eterno;
viaggia assieme all’anima
fredda dei gabbiani
assieme al cuore fecondo del pesce pregno
che arricchisce la rete più lontana
alla mano lestissima di Dio
venuta in volo da un nido di nebbia.[10]
Se qui, tutt’uno, abbiamo il luogo d’origine, il distacco e la fine
ineluttabile del viaggio (con l’affacciarsi di quel Dio la cui presenza diverrà
poi più forte nelle ultime poesie, possiamo però ristare ancora un po’ con
Cattafi nella sua terra. Infatti, nonostante l’esortazione di un testo collocabile negli anni Quaranta, troviamo
frequentemente testi nei quali è richiamata la Sicilia. Nella prima raccolta, Nel segno della mano,[11] la poesia Scirocco in Sicilia recita così:
Alle porte del Sud rose dal mare
agavi e capre bivaccano covando
il sangue fatto polvere nei secoli
vecchio odore immobile del mondo.
Mezzogiorno
su razze dolorose
favola
sbarcata come un padre
lamento
della sete dei cammelli
ogni
ulivo è per te una bandiera
ogni
cuore l’arancia ritrovata
ogni
donna la cavalla cavalcata.
Nel
corso degli anni Cinquanta, in prosa Cattafi esplora lo Stretto di Messina,
fino ai borghi montani del messinese, e le Eolie, per poi raggiungere altre man
mano più lontane isole: Egadi, Pelagie, Ustica, Pantelleria, e la meno prossima
di tutte, l’Inghilterra.[12] Già in questi resoconti
giornalistici avvertiamo la doppia forza – centripeta e centrifuga – che
caratterizza il moto poetico e esistenziale di Cattafi. Se i luoghi sono
concreti, già all’altezza di queste prove, se ne avverte il potere di
trasfigurazione, come per lo Stretto di Messina che divide terre vicine e
lontane allo stesso tempo: “Talvolta lo Stretto di Messina può diventare oceano
incalcolabile, Sicilia e Calabria come due persone che si sfiorino, restando
dentro di sé remote, due cose contigue ma lontanissime, nella dimensione
dell’essere”.[13]
Quel rapporto ambiguo tra le due coste che un
altro scrittore, nato solo poco più in là su quella stessa costa e in
quella stessa provincia, annotava: Vincenzo Consolo.[14] Quindi, seppure il
fenomeno cosiddetto della Fata Morgana, in giornate di particolare calma e
caldo, sembra come in una lente avvicinare Reggio a Messina, e sebbene lo
Stretto, al centro del Mediterraneo, come passaggio obbligato della storia,
abbia accostato le sorti delle due città, esse hanno poi avuto sorti diverse
premute com’erano alle spalle da due terre diverse. Rispetto alle sommosse
siciliane, i calabresi avrebbero conosciuto lunghi silenzi rassegnati. La
concretezza dei luoghi considerati viene fuori invece in descrizioni
paesaggistiche come questa dedicata a una delle Eolie: “Alicudi era un cono
modesto, un po’ tronco al vertice, dai suoi fianchi sporgevano neri speroni,
lacerando una fitta tessitura di righine verdi, parallele: il tenero orzo
ancora in erba, messo a crescere sulle solite terrazze. Basse casette
sparpagliate sulle pendici; e altro verde meno tenero dell’orzo, scompigliato,
in pieno rigoglio, all’assalto di tutto, dei costoni rocciosi, anche; eriche,
fichidindia, rovi; rovi, fichidindia, eriche”.[15] E qui senza dubbio
abbiamo più di qualcosa della stessa scrittura poetica di Cattafi:[16] più che un’effusione
lirica e arcadica, uno sguardo esatto
(ricordiamo addirittura un titolo come Qualcosa
di preciso) che porta al gusto dell’elencazione che si sposa a quello
dell’immediata reiterazione. Riguardo alla mediterraneità essa diventa ancora
più forte se ci spostiamo più a sud: “E Lampedusa era Africa, un brandello di
Africa rocciosa, carico di una dolcezza secca e dolente, i cui emblemi più
spiccati erano palme macilente, fichidindia polverosi, agavi attaccate alla
roccia sbiadita, mentre il mare intorno si muoveva coi suoi colori più freschi.
[…] Fondali dai 2 ai 18 metri; grotte, grandi scogliere, cadute di fondale,
alle volte. Visibilità fino a 12 metri, acqua limidissima. Prati di alghe verdi
e di alghe nere. Fondo misto, roccioso e sabbioso; e qui la sabbia è bianca
come neve”.[17]
Ma da questi fondali cristallini dell’estremo sud d’Europa, con gli
scatti imperiosi e rabbiosi che gli sono propri, Cattafi è capace di saltare
alle brume e alle vere nevi dell’estremo nord del Continente. Per sbarcare a Londra e muoversi nell’Ordinata campagna inglese, per
raggiungere, nel suo Viaggio in
Inghilterra, il cuore stesso dell’isola britannica del quale, con la stessa
esattezza, descrive il paesaggio così diverso: “È molto gentile la campagna nel
Warwickshire; con una sorta di selvatichezza tristissima, forte e gentile,
lungamente educata dalle nebbie, da un Sole pallido e dalla mano veloce
dell’uomo che guida le sue molte macchine agricole. La Natura qui è forte; ed
essa è quercia, è mano d’uomo (che non distrugge, deforma e altera quando ne
può fare a meno), è stuolo infinito di cornacchie che si alzano e si abbassano
per poi ancora alzarsi e abbassarsi, instancabilmente”.[18]
4.
L’Inghilterra, ecco quindi quella partenza, o ripartenza da Greenweech,
da cui prende titolo la seconda raccolta di Cattafi, e da cui possiamo
ripartire dunque anche noi. Da qui, dai reportage giornalistici e dai viaggi
cattafiani, prende dunque avvio quel “diario di bordo” di cui parlava Caproni.
Ma anche le pagine sulle isole siciliane in fondo fanno parte di quel diario di
bordo, di quel promemoria, di quel
continuo appuntare che indica una letteratura diversa da quella memorialistica (cosa che, come è stato
giustamente osservato, non sarebbe caratteristica dell’opera di Cattafi): il
promemoria si gioca nel tempo stesso dell’esperienza, non ne è una rievocazione
a tavolino.
La Partenza per Greenwich [19] è così rotta verso un altrove che muove da una citazione
melvilliana fatta da quell’Hemingway siciliano che, in qualche modo, era
Cattafi che a Hemingway pure somigliava fisicamente. La partenza se è
azzeramento è sempre radicale, da un punto zero in fondi si parte, aggiungiamo,
anche nascendo. Così, più fondamentale è l’affermazione cattafiana:
Si parte sempre da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in
questo
grigio sereno colore d’Inghilterra.
Armi e bagagli, belle
Speranze a prua,
sprezzando le tavole dei numeri
i calcoli che scattano scorrevoli
come toppe addolcite
da un olio armonioso, in un’esatta
prigione.
[…]
Ed alghe, spume,
il fondo azzurro in cui
pesca il gabbiano del ricordo
[…]
Così,
Il treno per Parigi (è il titolo d’una poesia, così come gli altri riportati di
seguito in corsivo) diventa “nave allegra”, poi scorrono Lussemburgo, Andorra, San Marino, quindi Dieppe,luglio, dove “una nera nave bolle” e “con suono di memoria”
e nuovi pensieri entrano accanto ai vecchi “da portare / in mezzo agli anni
futuri”, pur in una sensazione di qualcosa che “il cuore perde sulla soglia”,
infatti, come scrive a Lowonsford nel 1952: Il tempo gira sul quadrante, giunge
/ un segno di nebbia sopra il pino / Il mondo pende dalla parte del freddo”, e
a Glasgow, e nello stesso anno, e forse nello stesso viaggio, e forse in
quello, o in uno di quelli testimoniati anche nei reportage giornalistici, l’
“ombra / in attesa sul sesto meridiano” scrive ancora: “[…] E addio, / entriamo
sotto le stelle, nelle tenebre e in questa / antica, rovente tempesta che
aggroviglia / tenere fibre, i fili, la vermiglia / rete che ci tiene” se le
“tenebre” giocano con le “tenere fibre”, la “rete” ci appare, nel Cattafi
ancora in fuoruscita dall’ermetismo, così montaliana. Il siciliano Cattafi è
risucchiato anche dalle atmosfere nordiche e dal loro più sottile fascino, e
tutto vuole annotare, rendicontare: “La Birra Guinness ha molte porte scure /
sui docks e qualche lume / sparso in un lento / regno di chiatte e di vagoni, /
di ruggine lungo il fiume, / dove il cigno e il gabbiano sono amici / col petto
bianco puntato contro il fango”. E in una Lettera
dal Nord, addirittura da Oslo, sempre nel 1952, ritorna (“Qui ho memorie,
ho miniere in cui discendere”) il ricordo del patrio scirocco: “Nella patria
lontana lo Scirocco / rovina dai paesi / rocciosi dell’interno, / africa asia
posti di colonia”.
5.
Così, un cortocircuito a distanza di anni riporta Cattafi insieme e alla
concretezza dei luoghi e al ritorno, dall’altrove attraversato, alla sua terra.
Una sezione de L’aria secca del fuoco
ritorna a considerare Lo Stretto, [20] dal quale il poeta, pur andato a vivere a Milano, non riesce a
distogliere lo sguardo, ed è tra quelle sponde che egli continua a fare rotta,
e questo in fondo è anche il suo stesso Epitaffio,
come recita un titolo d’un componimento:
Il vero traffico dello Stretto
è portare da questa sponda all’altra
e viceversa mucchietti di miseria
avvolti nel giornale mentre il sole
imperversa
come una lapide un epitaffio abbagliante
e le nere navi dello Stato
battono una bella bandiera.
E
nel Crepuscolo diventano nitidi i
particolari da costa a costa:
Ci si vede a distanza
– e di mezzo c’è lo Stretto –
da un pezzetto all’altro
di Bel Paese:
blatte di sera diventano lucciole
le fiat coi fari accesi.
E se ancora, in questa sezione, scrive di Messina, o di Tindari, o dei Peloritani
e l’aspromonte che si fronteggiano, con in mezzo, di bel nuovo, lo Stretto dai
tempi omerici popolate di fate e mostri, nella stessa raccolta,
successivamente, ne La linea di costa
il piccolo cabotaggio locale si fa di nuovo navigazion e d’alto mare: ed eccolo
qui, Fra la Sava e la Drava o Nelle Shetland, tra i Mercanti di Bergen o Sulle navi vichinghe, e quindi Fra le dorsali dell’Honduras e i rilievi di
Hispaniola. Ma di nuovo, il viaggiare ci ricorda che una è la meta:
Sulle navi vichinghe
l’acquavite era forte
il salmone e la birra
distribuiti bene
l’amore seguiva
un suo libero corso
molti andavano a pesca di sirene
sbattendo la porta
uscivano dalla vita.
Se qui la
secchezza dei versi risente ancora del prosciugamento che s’era operato al
tempo de L’osso, l’anima, la
scrittura di Cattafi, pur nella modulazioni di varianti, sembra conservare una
profonda fedeltà a se stessa almeno nei contenuti. Si tratta, anche
stilisticamente, di quella sostanziale “regolarità” di cui parlava Raboni che
nella sua introduzione alle Poesie scelte
consigliava appunto di leggere, al primo impatto, tutto quel corpus come un’unica ininterrotta
poesia. Il che alla fine ci permette di caratterizzare come falso movimento quel ritornare sui
propri passi cattafiano, un muoversi “Qui nel cerchio già chiuso / nel monotono
giro delle cose / nella stanza sprangata eppure invasa / da una luce lontana di
crepuscolo”[21]
recita una poesia de Le mosche del
meriggio, poesia che si conclude con la parola zero: lo zero da cui si parte e cui si giunge. È il senso di
immobilità che alla fine si sente in un movimento che congiunge continuamente
due estremi, nord e sud, e che nella loro polarità si annullano, positivo e
negativo. E così quel moto a luogo
cattafiano sembra in fondo solo un modo per ingannare
il tempo nell’attesa ineluttabile di quel nulla. Alla maniera di Kafka che
pure viene continuamente ricordato a proposito di Cattafi. O come in Buzzati,
potremmo dire, per tornare in Italia.
È
vero forse che Cattafi non fu filosofo. Ma forse è vero che quella voce
nettamente poetica di Cattafi è anche distillazione di pensiero. Un pensiero
del nulla che però non esista a dar conto continuamente del mondo anche laddove
esso va continuamente frantumandosi nelle molecole, negli atomi di cui è
composto. In una eterna vicissitudine bruniana.
Pubblicato originariamente in "Gradiva", rivista di poesia italiana della State University at Stony Brook, New York, n. 39/40 - spring/fall 2011.
[2] Giorgio
Caproni, “La fiera letteraria”, 1 marzo 1959.
[3] Stefano
Prandi, Da un intervallo nel buio.
L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Manni, San Cesario di Lecce 2007,
p. 192.
[4] Bartolo
Cattafi, ora in Ultime, Edizioni
Novecento, Palermo 2000, p. 167.
[5] Ora in
Bartolo Cattafi, Poesie scelte
(1946-1973), a cura di Giovanni Raboni, Oscar Mondadori, Milano 1978, p.
46. Raboni ha poi curato con Vincenzo Leotta anche il volume cattafiano Poesie 1943-1979, uscito prima nello
Specchio Mondadori nel 1990 e poi negli Oscar nel 2001. Noi qui però citeremo
dal volume del 1978.
[6] Bartolo
Cattafi, Poesie scelte cit., p. 69.
[7]
Bartolo Cattafi, Ultime cit., p. 83.
Il corsivo è di Cattafi. Stefano Prandi mette in evidenza come anche qui torni
Montale: il poeta genovese nel Il gallo
cedrone già aveva corretto il mito romantico-shelleyano che paragona il
volo all’ispirazione; la conclusione è invece la caduta. Cfr. Da un intervallo
nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Manni, San Cesario di
Lecce 2007, p. 182. È lo stesso Prandi a citare, nel prosieguo del discorso, i
versi a cui subito avanti facciamo riferimento nel testo.
[8] Bartolo
Cattafi, Ultime cit., p. 21 e poi p.
22.
[9] Giovanni
Raboni, Introduzione a Poesie scelte cit., p. 19.
[10] Bartolo
Cattafi, Poesie scelte cit., p. 47.
[11] Bartolo
Cattafi, Nel centro della mano,
Edizioni della Meridiana, Milano 1951. Le cit. successiva è tolta dalla p. 35.
Essa è ripresa anche da Paolo Maccari, Spalle
al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, Società Editrice Fiorentina, Firenze
2003, p. 64. Maccari, come noi dopo, pone in relazione i testi poetici con gli
scritti giornalistici dedicati alla Sicilia (Ibid., passim).
[12] Cfr.
Bartolo Cattafi, Le isole lontane, a
cura di Nino Sottile Zumbo, introduzione di Paolo Maccari, GBM, Messina 2008. Gli articoli qui raccolti erano usciti in
varie pubblicazioni: “Italia nostra”, “Pirelli”, “L’Ora”. Interessante
ricordare la giovanile, e inedita, Silenzio
delle isole risalente al 1944: Nella pacata fissità di nubi / fu il giorno
un rosa / lontano ad occidente, / ove agitavo un sogno, / e ne la febbre /
beata, brividendo, / come l’acque correnti 7 a foce, a colorirsi fatue, / vidi
l’isole d’oro tacitarsi, / tramutarsi in azzurro / sospeso lembo, di silenzio,
a sera. // Da questo fioco lido addormentato / rivolta lento il sasso /
cantilenante flutto / reiterato”.
Stilisticamente diversa dalla successiva voce cattafiana, nonché dai testi in
prosa a cui la colleghiamo. Maccari, che la riporta nel suo libro cit. (p. 30)
tende a collegare il vitalismo e il barocchismo mediterraneo di Cattafi a
Federico Garcia Lorca piuttosto che a altrinomi siciliani, come quello di Quasimodo,
che pure sono stati fatti (cfr. poi in
Maccari cit.,p. 63).
[13] Bartolo
Cattafi, Le isole lontane cit. p. 19.
[14] Cfr.
Vincenzo Consolo, Vedute dello Stretto di
Messina, Sellerio, Palermo 1986; ora in V.C., Di qua dal faro, Oscar Mondadori, Milano 2001: Consolo chiama in
causa direttamente Cattafi e cita il passo da noi stessi chiamato in causa
subito prima nel testo (nell’ediz. Mondadori a p. 78). Meno di settanta
chilometri separano la Barcellona Pozzo di Gotto di Cattafi dalla Sant’Agata
Militello di Consolo: solo che quest’ultima è più lontana dallo Stretto,
situata com’è più verso Palermo.
[15] Bartolo
Cattafi, Le isole lontane cit., p.
43.
[17] Ibid., p. 61
[18] Ibid., p. 108.
[19] In Poesie scelte questa sezione occupa le
pp. 48-58.
[20] Bartolo
Cattafi, L’aria secca del fuoco,
Mondadori, Milano 1972. La sezione Lo
Stretto a cui facciamo rifermento è alle pp. 109-116 di Poesie scelte cit.
[21] Bartolo
Cattafi, Poesie scelte, p. 63.
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