martedì 21 aprile 2020

Rocco Scotellaro: un poeta al bivio

di
ENZO REGA






a Vita, a Sud di questo Sud

   Il funerale di Rocco Scotellaro, il poeta lucano nato a Tricarico nel 1923 e morto a Portici, vicino a Napoli, il 15 dicembre 1953, divenne l’occasione per una vera manifestazione di popolo: contadini dai paesi circostanti, e personalità e amici dal resto d’Italia. Rocco aveva consumato in trent’anni la sua parabola di poeta e politico: sindaco socialista del suo paese per ben due volte, nel 1946 e nel 1950, era stato il più giovane primo cittadino italiano. Accusato ingiustamente di peculato durante il secondo mandato, che aveva ottenuto dopo la sconfitta del Fronte popolare del 1948, fa l’esperienza, per pochi mesi, del carcere. Questo lo spinge non certo a disertare: si allontana infatti da Tricarico e dalla politica attiva per trasferirsi a Portici e collaborare con Manlio Rossi-Doria all’osservatorio di economia agraria, ritenendo che per migliorare le condizioni di vita dei contadini sia necessario programmare piani per l’agricoltura e la riforma agraria. Nel frattempo ha girato per l’Italia, con un tentativo di collaborazione a Torino con l’Einaudi di Pavese e Vittorini e a Ivrea con Adriano Olivetti. Il rapporto più significativo, oltre quello con Rossi-Doria, sarà con Carlo Levi. In questo modo si definisce una formazione che dal cristianesimo d’impronta francescano-caritatevole si avvicina al socialismo umanitaristico, nel quale “confluivano rivalsa popolare, antica sete di giustizia e redenzione, spinte irrazionali, anarchismo, avversione allo Stato lontano e nemico […]”.[1] Tutta la sua produzione poetica, almeno ciò che è stato reperito, dopo edizioni parziali postume curate da Carlo Levi (in modo affettuoso e partecipe ma arbitrario) e da Franco Vitelli (con maggior rigore filologico), è ora disponibile nel volume Tutte le poesie curato appunto da Vitelli.[2] Per gli scritti in prosa, che attendono ulteriore sistemazione, ricordiamo la sempre postuma edizione laterziana che raccoglie il romanzo autobiografico incompiuto e il parimenti incompiuto lavoro sulle condizioni di vita dei contadini meridionali e la raccolta di racconti (incompleta ma preziosa) Uno si distrae al bivio.[3] Maurizio Cucchi nota come la poesia di Scotellaro tuttora non abbia grande considerazione: è come se il personaggio, con la complessità della propria azione politica e del proprio lavoro culturale, abbia oscurato lo scrittore, al quale in modo frettoloso e insufficiente è stata affibbiata l’etichetta di poeta neorealista, che, per quanto parziale, non è comunque del tutto impropria. Il neorealismo, che in ambiti come quello narrativo e cinematografico, aveva dato risultati “memorabili”, in poesia aveva senza dubbio trovato in Scotellaro il solo interprete o comunque il più rappresentativo.[4]
   Cominciamo col prendere in esame alcune significative poesie “politiche”, anche se ricordiamo come esponenti della cultura di sinistra del tempo (Mario Alicata, Giorgio Napolitano, Giorgio Amendola) dovessero trovare ideologicamente deboli le posizioni di Scotellaro, salvo ravvedersi tardivamente. Fortini, ancora, parlava di protesta e non di rivoluzione. Il fatto è che, nel laboratorio poetico di un autore, motivazioni e modalità diverse possono convivere e mescolarsi. Scotellaro, anche per il suo stesso temperamento, si trovava ad un bivio senza sapersi decidere definitivamente fra una dimensione realistica attenta al documento storico-concreto e una dimensione simbolico-mitica. Ma quello che per taluni può essere un limite, per altri è una ricchezza. D’altro canto, era lo stesso Scotellaro ad ammettere in politica una scarsa preparazione ideologica.[5]
   Senza dubbio, nel novero delle composizioni politiche, la poesia dal cui titolo Carlo Levi ricavò quello per la silloge da lui curata[6] è una delle più significative. È fatto giorno, del 1952, così comincia: “ Ė fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con le faccie e i panni che avevamo”, con l’irruzione sulla scena della poesia, del mondo, della storia dei cafoni lucani e dei contadini del Sud, degli “scalzacani informi”, che con i loro pastrani “macchiano le vie”. Si alzerà allora “un canto nuovo” che in realtà ha l’originarietà del “più antico gemito di un fanciullo” e si imparerà la strada che porta verso un nuovo mondo, o meglio, come scrive Scotellaro, verso “un paese dove bisogna andare / con la felicità della paura / di andare incontro all’amore”. Gli scalzacani finalmente smentiranno la menzogna del potere, “papi e governanti” che, per giustificare se stessi, hanno negato sentimento e parola al popolo. La “leggenda perduta” sarà recuperata e “la notte non sarà più scura e silenziosa”.[7]  L’eventuale ingenuità del dettato non sembra togliere nulla – anzi nella sua scabra essenzialità piuttosto aggiunge – alla resa di un manifesto che si presenta con l’icasticità del Quarto stato di un Pellizza da Volpedo. Del gennaio 1953 è l’appello Ai giovani comunisti, nel quale da un lato il poeta ricorda l’accusa che loro viene fatta di essere diventati, dove sono andati al potere, negatori della libertà, dall’altro afferma, rivestendo i versi della coloritura pacifista francescana della sua formazione: “Io sono con voi, con i giovani comunisti, / che mi promettono, come io prometto, che mai / ci sarà una trincea e un mirino / puntato sul petto di mio cugino americano”. Pur ponendosi al di fuori della logica della guerra fredda, Scotellaro fa indubbiamente una scelta di campo che lo porta – qui sì ingenuamente – a esaltare lo Stalin che dal padre calzolaio (come quello di Rocco) aveva imparato l’umile arte di “servire l’uomo”: “Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo / e il pane e le scarpe e le case e le macchine / può dire chi era Stalin e la ragione del mondo”,[8] evocando qui il Weltgeist di quell’Hegel la cui filosofia della storia faceva parte dell’armamentario marxista.
   Pur proiettando la questione politica in una dimensione più generale, Scotellaro parte comunque strettamente dalla sua terra del Sud e dalla propria esperienza. Fondamentali sono nella sua poesia il padre e il paese, in un’identificazione che ritroviamo in Alfonso Gatto, poeta “picaro fra Sud e Nord” (D’Episcopo). “Il paesaggio lucano – è stato scritto – e non solo quello dell’infanzia, è lo sfondo costante delle vicende vissute e narrate da Scotellaro, e spesso diventa protagonista, riproducendo emozioni e sentimenti dello scrittore”.[9]  La terra lucana con i monti scabri, le pianure gialle e nude, i paesi “in frantumi”, lontani fra di loro. Il paese è sempre un “buco”, un “bugigattolo”, una “gabbia”, inospitale, severo. Questo il paesaggio dei padri, duro ma anche rassicurante, verso il quale Scotellaro prova un sentimento di attrazione e repulsione, lo stesso rapporto che lo lega appunto al padre. Lo  stesso rapporto di Leopardi con Recanati.[10] In più, ed è essenziale, quello di Scotellaro con i suoi luoghi è un legame “antropologico”, che si sostanzia attraverso le stratificazioni storiche e le reminiscenze letterarie: si parla della Magna Grecia, della tomba osco-sabella, degli “avi latini”.[11] Senza dubbio emblematico è il testo intitolato Appunti per una litania del 1948:[12] in questa litania per il Sud si esprime l’ancestralità di un legame che resiste nonostante tutte le chiusure di una società arcaica che il giovane intellettuale di respiro europeo non tollera: “Sud è il mio amore, sono gli aratori, / nell’ombra delle quercie o sulle aie, dormono legati alle cavezze / delle cavalle baie. / Hanno la faccia bruciata  / una crosta di pane”. E dopo aver accennato a donne con i braccio figli in attesa di un “uomo che può non ritornare” (l’emigrante inghiottito definitivamente dalla terra straniera) osserva: “Perciò nelle feste grandi / facciamo le colonne dietro ai santi, preghiamo per l’acqua e per il sole”, con una sovrapposizione di religiosità cristiana e magia pagana che possono ricordare le considerazioni di un Ernesto de Martino che, parlando di un piano metastorico mitico-rituale, riconduce il bisogno di superstizione alle condizioni di vita precaria e piena di incertezze per il futuro delle genti del Sud. E pure così calato nella descrizione delle pratiche magiche della Lucania, l’etnologo napoletano, come Scotellaro, non vi rimane invischiato ma auspica un sollevamento da tale condizione di abbandono fatalistico, che trova solo nell’intervento magico eccezionale la soluzione ai propri mali, in nome di un legame più stretto con il razionalismo europeo che ridia all’uomo gli strumenti per diventare artefice del proprio destino. Scrive infatti de Martino: “Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile  abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi un destino più alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato”.[13] Ciò non impedisce, nella considerazione complessiva dell’uomo, di considerare tuttavia la permanenza costitutiva del magico. La posizione di un Edgar Morin che, avviandosi verso la teoria ella complessità, e abbandonando il marxismo di stampo positivistico-stalinista, riconsidera quella dimensione magica nella quale in fondo rientrava lo stesso culto della personalità del dittatore.
   Considerazioni che possono dar conto della posizione di Scotellaro che pur scrivendo ancora, in quella stessa poesia, “Sud è la canzone dei primordi, / si muovono le dita / sulla rete dei ricordi. // E sud è mio nonno / mio padre e mia madre”, dal paese e dalla campagna parte alla volta della città e del Nord. Ma mentre l’etnologo, da scienziato, ha una posizione più netta, il poeta invece rimane perennemente al bivio, fra mondo contadino e modernizzazione, riscatto e rassegnazione. Neanche la città sarà la soluzione e, anzi, il dissidio campagna/città sarà altro topos fondamentale, come in Pavese. Nel 1947, a Bari Scotellaro scrive La città mi uccide: dopo averne colto soprattutto il carattere mercantile-mercenario (“Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi / sulle immobili merci delle vetrine”; “sentite furie: alberghi e panifici / e padroni che muovete questa ruota / orrenda che ci stride sulle carni, / ditte, navigatori, capitani sentite: / eccovela la testa del mercenario / accalappiata nel vostro frustone”), conclude rivendicando la propria fondamentale estraneità: “Bari, Napoli, Roma, Milano / i fiori,  gli uccelli, la donna / qui si comprano / e io cammino con la mano al cuore / perché a forza potrebbero rubarlo”.[14] E poi Passaggio in città del 1950:[15] “Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, ho perduto la mia libertà”. Se da un lato, con tutte le asprezze, il mondo contadino resta il polo positivo (ossimorico: schiavitù/libertà), dall’altro la poesia di Scotellaro si concede a un’irrefrenabile tensione lirica, nel doppio significato che alla parola si può dare: come canto dell’io e come modulazione del canto stesso, che si distingue dalle poesie-racconto più o meno pavesiane. Per non parlare poi di altri toni ermetici o crepuscolari, che danno ragione all’assunto di Cucchi per il quale quella meramente “neorealistica” è cifra riduttiva. È questa, nel senso ampio del termine, una poesia esistenziale (quale cifra più kirkegaardiana della scelta, del dubbio, dell’angoscia?), nella quale, nel rapporto con la terra, con la gente, con la società, ne va di tutto l’essere del poeta. Il quale da un lato vuole offrire un documento realistico del suo mondo, dall’altro indaga se stesso anche con gli strumenti evanescenti del simbolo: “Oh, non fossi mai nato / se mi tocca la morte… / Sulla polvere raggranellata / gioca l’ultimo soffio / e i cani riprendono la loro canzone / sguaiata della notte”.[16] E qui sentiamo la solitudine esistenziale dell’uomo che, nella fattispecie, possiamo leggere anche come l’isolamento sociale e politico dell’intellettuale senza-patria che dalla patria si allontana e ad essa torna, almeno con la memoria. Questo suggerisce l’inizio de L’uva puttanella, con il ritiro dalla collettività del protagonista, che, tornato alla vigna di famiglia (quella vigna che per Pavese nasconde un dio e per Scotellaro dunque Lari e Penati) varcando un bivio, racconta al padre ormai assente storie della propria vita annullandosi nella memoria delle proprie origini:[17] “Ritornai al bivio e per le case popolari, mi diressi alla vigna di famiglia, che si stende come un panno appeso, sui valloni che vanno verso il fiume. […] abbandonavo così un mondo di passioni e inimicizie che non mi convenivano. Molti […] volevano per il mio bene che spendessi altrove il cervello e il cuore, mentre qui, servo degl’ignoranti, dei rivoltosi, degli scontenti, mi sciupavo i nervi e le inestimabili energie”.[18]
   L’attualità di Scotellaro sta, al di là di mode, oltre che nella figura dell’intellettuale che sta gramscianamente con gli oppressi, nella sua poesia, e nel lavoro sul linguaggio e sulla lingua lucana, perché è giusto che al poeta si guardi: “L’importanza storica dell’operazione condotta da Scotellaro sta tutta nello sforzo immane di creare un nuovo linguaggio senza che potesse giovarsi di precedenti in termini o affini: l’incertezza dell’esito, che si palesa nella discontinuità del processo, costituisce essa stessa motivo d’attrazione e coinvolgimento, come se il lettore rivivesse in proprio l’alternarsi dei successi e delle cadute”.[19] Come se a quel bivio il lettore venisse posto.

  
 in “Gradiva”, International Journal of Italian Poetry, Number 31-32, Spring and Fall 2007, The State University of New York at Stony Brook, pp. 64-70.







[1] Angela Rita De Canio, Rocco Scotellaro. “È fatto giorno”: dall’edizione di Levi a quella di Vitelli, Calice Editori, Rionero in Vulture (Potenza) 2003, p. 23.
[2] Cfr. Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di Franco Vitelli, con introduzione di Maurizio Cucchi, “Oscar” Mondadori, Milano 2004.
[3] Cfr. rispettivamente Rocco Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, introduzione di Nicola Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari 2002  (le prime edizioni distinte dei due testi rispettivamente nel 1955 a cura di Carlo Levi e  nel 1954 a cura di Manlio Rossi-Doria); Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, prefazione di Carlo Levi, Basilicata Editrice, Roma-Matera 1974. 
[4] Cfr. Maurizio Cucchi, Introduzione, in Rocco Scotellaro, Tutte le poesie cit., p. V.
[5] Cfr. Rocco Scotellaro, Lettere a Tommaso Pedio, Osanna, Venosa (Potenza) 1986, p. 58: “Io non ho una cultura comunista. È grave ma non la potevo avere”.
[6] Rocco Scotellaro, È fatto giorno, “Lo specchio” Mondadori, Milano 1954.
[7] È fatto giorno, in Tutte le poesie cit., pp. 278-279.
[8] Ai giovani comunisti e L’uomo, in ibid., rispettivamente pp. 282-284 e p. 285.
[9] Laura Paola Sarti, Invito alla lettura di Scotellaro, Mursia, Milano 1992.
[10] Però con qualche differenza fondamentale: “di Recanati Leopardi amava lo splendido isolamento, ma ne rifiutava la rusticità: viceversa, Scotellaro è tutto calato nella storia e nella tradizione contadina del suo paese, di cui però non sopporta la limitatezza” (Laura Parola Sarti cit., p 111).
[11] Cfr. rispettivamente La tomba della stirpe e Terronia, in Tutte le poesie cit., p. 241.
[12] Ibid., pp. 241-242. Dal cuore stesso di questa realtà parla dunque Scotellaro, “questo uomo straordinario che ha interpretato dall’interno un mondo incominciando una storia autentica dei sentimenti e delle lotte di quei contadini che dopo il 1945 vollero tentare esperimenti di autonomia e di crescita politica e culturale”, come scrive Nicola Tranfaglia (Introduzione. L’eredità di Rocco Scotellaro) nell’aprire il volume che raccoglie L’uva puttanella. Contadini del Sud riedito nel 2001 da Laterza.   
[13] Cfr. Ernesto de Martino, Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 2001, p. 184. Cfr. anche in Rocco Scotellaro, Contadini del Sud cit., p. 196 ciò che uno degli intervistati dice sovrapponendo pratiche magiche e religiose in relazione alla benedizione dei campi.
[14] La città mi uccide, in Tutte le poesie cit., pp. 79-80.
[15] Ibid., p.112
[16] Oh non fossi mai nato! (1947), in ibid., p. 208. L’allontanamento dal “concreto”, in relazione alla morte, e al senso panico del tempo, come portato di un atteggiamento letterario decadente, viene individuato da Giuseppe Amoroso (Rocco Scotellaro, in Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, VII, Marzorati, Settimo Milanese 1988, p. 442) in versi come “Passeggiano i cieli sulla terra / e le nostre curve ombre / una nube lontano ci trascina. / Allora la morte è vicina…” (Campagna, 1948, in Tutte le poesie, p. 10). È chiaro che questi esiti sono propri di una prima fase della ricerca poetica scotellariana. 
[17] Cfr. Laura Parola Sarti cit., p. 76.
[18] Rocco Scotellaro, L’uva puttanella cit. p. 3.
[19] Franco Vitelli, Postfazione a Rocco Scotellaro, Tutte le poesie cit., p.344.

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